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La Via della seta è stata conveniente per la Cina, ma l'Italia può farne a meno. Un'indagine

Federico Bosco

La firma del memorandum non è stata utile per l'economia italiana, ma uscirne potrebbe essere un rischio. La difficile decisione su un accordo definito da Meloni "un grosso errore"

Quattro anni fa l’Italia diventò l’unico paese del G7 ad aderire all’iniziativa cinese per la costruzione di una rete infrastrutturale globale che riecheggia le glorie dell’antica Via delle seta. Nel 2019 il  governo Conte I firmò un Memorandum d’intesa (MoU) con Pechino per collaborare allo sviluppo della Belt and Road Initiative, un documento che va rinnovato entro la fine di quest’anno, ma che gli Stati Uniti si aspettano venga annullato.

La premier Giorgia Meloni ha definito l’accordo “un grosso errore” lasciando intendere che potrebbe decidere di non rinnovarlo, una posizione che però non è ancora stata confermata. Annullare il MoU è una questione delicata. Mentre è abbastanza chiaro che per l’Italia non c’era nessun bisogno di aderire alle nuove Vie della seta per migliorare i rapporti economici con la Cina, il mancato rinnovo da parte di Roma sarebbe preso da Pechino come un affronto diventando la causa di una ritorsione più o meno velata. Tuttavia, l’accordo finora non ha prodotto dei tangibili benefici economici: dal 2019 non c’è stata un’accelerazione particolare dell’export italiano sul mercato cinese.

 

La Cina è il settimo mercato di destinazione per l’Italia, ma con un saldo commerciale strutturalmente deficitario (-41 miliardi nel 2022, quasi il doppio rispetto ai -22,9 miliardi del 2021 e i -19,4 miliardi del 2020). Nel 2022 le esportazioni in Cina hanno toccato quota 16,4 miliardi di dollari, ma è solo un timido aumento rispetto ai 13 miliardi del 2019. Nello stesso periodo il valore delle importazioni italiane dalla Cina sono salite a 57,5 miliardi di dollari nel 2022, rispetto ai 31,7 miliardi del 2019. Insomma, il deficit commerciale italiano con Pechino è più che raddoppiato. 

 

Nel primo trimestre di quest’anno, invece, le esportazioni italiane in Cina sono aumentate di un incredibile 92,5 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, ma c’è una ragione specifica: le esportazioni del settore farmaceutico tirate in alto dal Paxlovid, una compressa anti Covid dal costo unitario di diverse centinaia di euro prodotta dalla Pfizer in un impianto di Ascoli Piceno. Il miracolo marchigiano è stato eclatante: se nei primi tre mesi del 2022 l’export settoriale di farmaci per il mercato cinese valeva 249 milioni di euro (meno del 7 per cento del nostro export totale verso il paese), nel periodo gennaio-marzo 2023 è arrivato a valere 3,7 miliardi di euro.

 

Tuttavia, sono dati che non hanno niente a che vedere con il MoU, e sono limitati a un picco di domanda per un prodotto molto specifico. La realtà è che a quattro anni dalla firma di quell’accordo le tanto pubblicizzate opportunità commerciali per l’Italia in Cina non si sono concretizzate. 

 

Secondo i dati dell’Ice (l’Agenzia governativa per la promozione all’estero), citati a marzo dall’economista Alessia Amighini su La Voce, la quota di mercato dell’Italia in Cina “è rimasta costante (e relativamente bassa) intorno all’1,1 per cento dal 2020, scendendo allo 0,99 per cento nel 2022. Il valore totale dell’interscambio bilaterale è cresciuto da 55 miliardi di dollari nel 2020 a quasi 78 miliardi nel 2022, ma con uno squilibrio commerciale a favore di Pechino, le cui esportazioni verso l’Italia sono aumentate di circa 18 miliardi di dollari, mentre le esportazioni italiane verso la Cina sono cresciute di soli 4 miliardi di dollari nel periodo 2020-2022”. 

 

Quanto alla “diplomazia dell’arancia”, come  fu definito dal Foglio il trasporto via aereo di arance siciliane in Cina che, secondo il governo di allora con il vicepremier e il sottosegretario della Lega Michele Geraci in testa, avrebbe dovuto far esplodere l’export di agrumi, meglio stendere un velo pietoso. Un report dell’Osservatorio di Politica internazionale del Parlamento ha calcolato in 162 mila euro il valore delle spedizioni di arance italiane in Cina nel 2019. Nello stesso periodo la Spagna ha esportato in Cina agrumi per 32 milioni di euro. I maggiori esportatori di arance sul mercato cinese oggi sono il Sudafrica, l’Egitto, l’Australia, gli Stati Uniti e infine la Spagna, la maggiore esportatrice europea di arance in Cina. Senza aver mai firmato con Pechino nessun memorandum d’intesa sulle nuove Vie della seta.

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