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La Ville Lumière

La prospettiva vitalissima sulla città di Julien Green, autore che è ora di spolverare

Cristina Marconi

Lo scrittore americano raccontava una Parigi "sempre in pericolo”, il cui destino scolpito nei secoli la porta a esistere “con oscura violenza” sul fascinoso baratro di ciò che è splendido

Salendo in cima al Sacré-Coeur si capisce tutto: Parigi è “palesemente la città che attira la collera, la città sempre in pericolo” e un po’ è anche colpa sua, perché, davanti alle tentazioni di grandezza, “non è mai stata in grado di opporre il gran rifiuto che potesse metterla al sicuro dal suo destino”. E quindi questo destino scolpito nei secoli la porta a esistere “con oscura violenza” sul fascinoso baratro di ciò che è splendido, antico, ambizioso, come quelle chiesette che sembrano dirti: “Più sono a rischio, più sono bella”. Se da vicino la città può apparire rassicurante, basta una panoramica perché a uno scrittore sopraffino come Julien Green l’intenzione grandiosa si riveli, e venga grandiosamente espressa, dando vita a una delle più limpide descrizioni di metropoli della storia della letteratura, più vicina a quello che la quasi coeva Virginia Woolf aveva da dire sulla sua Londra che alla sterminata produzione dei flâneur di fila. Si intitola semplicemente Parigi il libretto che lo scrittore americano ha dedicato alla città in cui è cresciuto – “è una città di cui si potrebbe parlare al plurale, come i Greci parlavano di Atene” – e che Adelphi ha appena pubblicato nell’eccellente traduzione di Marina Karam, che restituisce perfettamente lo stile terso e la precisione delle immagini di Green, enfant du siècle nato nel 1900 e morto nel 1998, diarista torrenziale e romanziere acclamato la cui gloria postuma ha preso un sottile velo di polvere, forse per la fortissima fede che lo aveva reso punto di riferimento dei cattolici francesi e per la scoperta tardiva di un’omosessualità a lungo negata (e molto ben raccontata nei pimpantissimi diari). 

Ma davanti a una prosa come quella di Green viene più voglia che mai di accartocciarle, le polemiche, e di continuare a godere di questa carrellata di immagini perfette, parole da innamorato protettivo – che brutta la Torre Eiffel, che orrore il “nuovo” Trocadéro – e prospettiva vitalissima su una città che ancora oggi, come dimostrano le dolorose cronache, suscita molta colère. Green non sa che farsene della Parigi solare, “nonostante quella fama di allegria ereditata da un’epoca felice”, visto che “la miseria e la malattia si aggirano a tutte le ore del giorno e della notte” ed è proprio nelle ore buie che il suo fascino si mostra, che le sue storie si stagliano meglio al di là di tutto quell’inseguire i monumenti proprio dei turisti ottusi. Per “entrare in comunicazione con lei bisogna essersi annoiati, avere un po’ sofferto nei luoghi che la delimitano”, spiega questo narratore puro, uno che riesce a rendere avvincente anche un libro di descrizioni, in cui Parigi è prima immaginata – c’è la guerra, esiste solo nella memoria e la si può visitare benissimo anche così – e poi raccontata con una punta di rammarico, perché è inafferrabile, un eterno spreco di trame, di situazioni che nessuno potrà raccontare. Un problema, quello dell’“irritante mistero” delle esistenze altrui, che mette il lettore davanti al cruccio veramente fuori moda di Green: afferrare gli altri, afferrare l’altrove. 

Il suo sguardo religioso si manifesta quando parla di chiese, di edifici sacri, come Notre-Dame, regina della notte, o Val-de-Grâce, dove brillano le stelle, o Saint-Julien-le-Pauvre, “quadrata, salda e placida come un ragionamento di San Tommaso”, oppure quando racconta del suo incontro con Jean Cocteau, ormai malato, che si affida alla sua consueta parlata epigrammatica per dirgli che “Dio è la parte fresca del cuscino”. Nell’infanzia, quando la madre amatissima era ancora viva, rischia continuamente di inciampare mentre gira per le zone in cui è cresciuto, ed è il paese tutto a riempirlo di un sentimento di appartenenza a cui quel briciolo di estraneità, l’essere americano, regala una certa prospettiva, una “fiducia in quel qualcosa d’indistruttibile che è la Francia”, anche tra le polemiche e le violenze, perché “nel bene e nel male, ciò che esce dalle mani di Parigi è Parigi, che sia una lettera, un pezzo di pane, un paio di scarpe o una poesia”.

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