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il foglio del weekend

Strade di fuoco e di sangue in Francia

Siegmund Ginzberg

Storia e geografia delle barricate francesi, dai “Misérables” ai casseur. Una Parigi disegnata per contenere le rivolte

Parigi, o Londra, non si capiscono senza l’ausilio di una mappa stradale. Ci vorrebbe una mappa per seguire, anno dopo anno, secolo dopo secolo, le barricate, le rivolte e le baruffe di strada. Così come è indispensabile uno stradario per seguire le avventure di Nestor Burma, il detective privato inventato da Léo Malet. Comunista, anzi anarchico, surrealista, quanto invece è razionale, benpensante il Maigret del rivale Georges Simenon. “La vita era uno schifo. La conferma veniva quotidianamente. Mi sarebbe piaciuto avere dieci anni. Non so perché ma mi sarebbe piaciuto avere dieci anni. Un immenso desiderio di avere dieci anni. La vita era uno schifo, era un ignobile e spaventoso ingranaggio”, dice nel capitolo iniziale dell’omonimo romanzo il protagonista, prima di impugnare “l’artiglieria” (da La Trilogia nera: i Malet sono sistematicamente pubblicati da Fazi, come i Simenon lo sono da Adelphi). 

Malet ha scritto un giallo su quasi tutti i 20 arrondissements (ne mancano solo 5). Non per niente corredate da mappe sono i suoi Nouveaux Mystères de Paris. Una mappa apre il Paris, boulevard Voltaire della matematica e poetessa di Oulipo, Michèle Audin, fresco di stampa. Tredici tappe, ognuna una storia, lungo il rettilineo più lungo della Parigi ridisegnata col righello dal barone Haussmann, da place de la République a place de la Nation. Quasi a ogni tappa una storia di violenza, di sangue, di ribellione, di massacro, sino alla strage del Bataclan.

A Parigi stavolta la scintilla è partita da Nanterre, quartiere dormitorio giusto a ridosso dei magnifici grattacieli di vetro e acciaio de La Défense, il quartiere direzionale di fine ‘900, il cui grande arco quadrato è allineato, e chiaramente visibile, con il più tradizionale Arc de Triomphe di place de l’Étoile, da dove si irraggiano le grandi avenues di Haussmann. Uno dei raggi sono i Champs-Élysées dove ogni 14 luglio si celebra, con sontuose sfilate militari, la festa della Repubblica e della rivolta (la data è quella della presa della Bastiglia, nel 1789). Gli ampi rettilinei erano stati concepiti per rendere più difficile la costruzione di barricate, agevolare le cariche, e soprattutto consentire il tiro dei cannoni. Come la via Maqueda a Palermo, che tra il 1512 e il 1866 aveva il record europeo di sommosse di strada. 

Ogni rivolta di strada è diversa dalle altre. Ma hanno qualcosa che le accomuna. Ad esempio una certa disaffezione per gli insorti e i loro eccessi. Che spesso subentra all’iniziale simpatia per la loro causa. Ad esempio il fatto che spesso finisce male, con regimi più repressivi, per giunta sostenuti da un’opinione pubblica che sceglie ordine e tranquillità, anche a prezzo della libertà. Baudelaire era sulle barricate del giugno 1848. Lo ricordano con un fucile in mano, col quale avrebbe voluto ammazzare l’odiato patrigno generale. Esalta la rogne, l’impazienza, l’indignazione l’odio che avrebbero impregnato un secolo intero, l’Ottocento, tutte barricate. Poi avrebbe cambiato idea, convertendosi all’ordine restaurato dal “provvidenziale” golpista Napoleone III.  Avrebbe rinnegato la propria “ubriacatura” giovanile. Avrebbe ironizzato sulle pretese utopistiche: “Il 1848 era divertente, ma solo perché si fabbricavano utopie come castelli in Spagna”. Anche Tocqueville, l’ammiratore della Democrazia in America, fa ironia sulla spettacolarizzazione: “Nelle nostre sommosse, anche le più sanguinose, c’è sempre una moltitudine, mezzo mascalzoni, mezzo curiosi, i quali credono di assistere ad uno spettacolo”.  

E’ alla vigilia del 1848 che Marx aveva steso, assieme all’amico Engels, il Manifesto del Partito comunista. Ma le 5 settimane in cui, da esule, fu testimone degli avvenimenti a Parigi, non grondano affatto di simpatia per gli insorti, e men che meno per i capi e i teorici. La sua bestia nera è il lumpenproletariat, il sottoproletariato, la massa di vagabondi e piccoli delinquenti senza arte e parte sempre pronti a passare al servizio della reazione, una classe ambigua la cui “esistenza incerta, dipendente più dal caso che dalla loro attività, [la cui] attività, la vita sregolata, che ha come unico punto fisso le bettole dei marchands de vin – luogo di incontro dei cospiratori [l’altra sua bestia nera] – il contatto inevitabile con ogni sorta di gente ambigua, collocano questi individui in quell’ambiente che a Parigi è detto bohéme”. E’ questo l’esercito su cui Luigi Napoleone fonderà il golpe del suo 18 Brumaio, l’illusione che “una fine con paura” metta fine alla “paura senza fine” della sommossa senza fine

Le barricate non sono quasi mai eroiche come quella dipinta da Eugène Delacroix, con la Libertà che nel luglio 1830 guida a seno nudo il popolo. Victor Hugo nei Misérables dedica un intero capitolo (“La guerra tra quattro mura”) all’architettura, alla costruzione e all’ambiguità delle barricate. Hugo è tranchant sull’ambiguità: “Ma in fondo, che cosa fu il giugno 1848? Una rivolta del popolo contro se stesso”. Nel luglio 1830 si erano contate 4.000 barricate, nel giugno 1948 ne eressero 6.000. Più che la Repubblica, ciascuno difendeva il proprio quartiere, il proprio vicinato. Hugo concentra l’attenzione su due di esse. “Una di esse ingombrava l’ingresso del sobborgo Saint-Antoine, mentre l’altra impediva l’accesso al sobborgo del Tempio […] La barricata Saint-Antoine era mostruosa: alta tre piani e larga settecento piedi, sbarrava da un estremo all’altro la vasta imboccatura del sobborgo, che è quanto dire tre vie; scoscesa, frastagliata, dentellata, spezzettata e merlata da un immenso squarcio, puntellata da contrafforti ch’erano da soli bastioni, spingendo in fuori qua e là delle sporgenze, possentemente addossata ai due grandi promontorî di case del sobborgo, sorgeva come una diga ciclonica”.  E’ qui che muore Gavroche, il capostipite di tutti i ragazzini uccisi dagli sbirri. E’ qui che l’ex forzato Jean Valjean, che con l’insurrezione non c’entra nulla, salva il genero Marius portandoselo sulle spalle attraverso le fogne. Hugo insiste sull’ambiguità della sollevazione, sulle due facce, collera ed enigma: “La barricata Saint-Antoine era in un tumulto di tuoni, la barricata del Tempio era in silenzio. V’era fra quelle due ridotte la differenza che corre tra il formidabile ed il sinistro: la prima pareva una gola spalancata, l’altra una maschera. E, volendo ammettere che la gigantesca insurrezione del giugno fosse composta d’una collera e d’un enigma, si intuiva nella prima barricata il drago e, dietro la seconda, la sfinge”. A Parigi le barricate avrebbero continuato a farle per un bel po’. E le forze dell’ordine avrebbero continuato a superarle, senza troppe difficoltà, anche quelle della Comune di Parigi nel 1871, conclusasi con la fucilazione in massa dei comunardi. Sono le prime barricate di cui si hanno foto, grazie all’invenzione di Monsieur Louis Daguerre. Gli insorti si facevano fotografare volentieri. I dagherrotipi servirono a identificare i fucilandi. Oggigiorno ci sono mezzi più moderni per farsi immortalare e individuare. Forse è una delle ragioni per cui giornalisti e fotografi non sono accolti bene nei quartieri in rivolta. Come non lo sono i pompieri che si danno da fare per spegnere gli incendi.

Nanterre è dove ebbe inizio il Maggio 1968. Nel 1964 vi avevano costruito la nuova università. Poi più tardi, negli anni 70, era stato eretto un intero quartiere di torri rotonde, con le finestre a goccia, soavemente decorate in pasta di vetro blu, bianca e verde, a simulare le nuvole, progettate dall’architetto Emile Aillaud. Erano state concepite per alloggiare gli immigrati dall’Algeria sfrattati dalle vicine bidonville. Sono censite nell’elenco dei siti protetti dall’Unesco. Periodicamente si progetta di rinfrescarle. Non sono mai state un paradiso in blu dipinto di blu. A mezzo secolo dalla loro costruzione erano diventate supermercati del traffico di droga. Solo qualche mese fa, in febbraio, un servizio di Le Parisien riferiva che i dealer avevano affisso dei manifesti: “Care vicine, cari vicini. Come avete potuto constatare siamo di ritorno […] Non siamo qui per turbare la vostra quotidianità, solo per lavorare”. La circolare continuava con l’impegno a rispettare un “codice” di comportamento: non fumare per le scale, non fare chiasso, non imbrattare e non lasciare in giro spazzatura. In cambio chiedevano rispetto” per “gli addetti”. Era in una di queste torri che viveva il diciassettenne Nahel M., ucciso dalla polizia il 27 giugno, per non essersi fermato a un posto di blocco. Chissà se Malet gli avrebbe mezzo in bocca l’esclamazione La vie est dégueulasse, la vita fa schifo.

Niente di nuovo nelle banlieue, si potrebbe dire parafrasando l’amaro titolo del libro di Erich Maria Remarque sui giovani mandati al massacro nelle trincee della Grande guerra. I ragazzini che hanno illuminato il cielo coi loro fuochi d’artificio traccianti (sembrava una festa, quasi un gioco), preso a sassate per sei giorni e sei notti polizia e pompieri, incendiato centinaia di automobili e autobus, spaccato vetrine saccheggiato negozi avevano 17 anni in media. Avevano al massimo 5 anni all’epoca della grande guerriglia di strada del 2005, la più violenta dal maggio ‘68. Non erano ancora nati le altre volte che Parigi andò a ferro e fuoco. Era metà anni 90 del secolo scorso quando facevo il corrispondente da Parigi e andai a vedere il bellissimo e tristissimo La Haine, L’odio, il film in bianco e nero di Mathieu Kassovitz che aveva vinto a Cannes. Racconta l’odissea in meno di 24 ore di tre adolescenti di colore in guerra con la polizia dopo che un loro coetaneo, brutalmente fermato, è finito in coma. La differenza è che allora i ragazzini non avevano ancora i cellulari, non c’era la diffusione istantanea e capillare via social.

Sa di déja vu anche la reazione nell’opinione pubblica. E’ stata lanciata una sottoscrizione per la famiglia del ragazzino ucciso. Ma ha quasi immediatamente raccolto una somma dieci volte maggiore una sottoscrizione concomitante lanciata a favore del poliziotto che ha sparato ed è finito sotto inchiesta. Non c’è dubbio su dove prevalgono le simpatie e le condanne. In Francia i poliziotti sono la categoria con la proporzione più alta di suicidi. E’ anche un fiorire senza precedenti, apprendiamo dai giornali francesi, di cagnotte, collette, raccolte fondi spontanee (il termine potrebbe avere la stessa etimologia di “cagnotta”, fiorentino per “tangente” secondo la Crusca) per chi ha subito danni, gli hanno bruciato la macchina, distrutto il negozio, spaccato la vetrina. Si moltiplicano con un fervore che neanche per le inondazioni o la lotta al cancro.

La Francia ha una tradizione di sopportazione delle agitazioni sociali. Mi trovavo a Parigi quando a fine anni 90 ci fu un’ondata di agitazioni sindacali. Per settimane Parigi restò completamente paralizzata. Si erano fermati i treni e gli altri trasporti. Mi colpì che la gente, anche i pendolari, non inveisse contro gli scioperanti. Sopportavano i disagi con pazienza stoica. Pensai che avesse a che fare con una secolare tradizione di rivoluzioni, di affermazione dei propri diritti, di lotte sindacali. “Je ne suis pas payé pour ça”, non sono pagato per questo, dicono.  Sono abituati alla protesta. Anche violenta. Hanno sopportato i gilets jaunes. Hanno piantato una grana da niente contro il progetto di prolungare l’età pensionabile a 62 anni. Ma giunge un momento in cui la gente non ne può più. A cominciare dagli abitanti dei quartieri disastrati. E non solo i negozianti. Non hanno simpatia per i giovani casseur. Non ce l’hanno con la polizia e la sua brutalità. Ce l’hanno col governo, che non fa abbastanza. Ce l’hanno con Macron che non ha voluto proclamare lo stato di emergenza. Mentre nel 2005 Sarkozy l’aveva fatto. E le destre ne approfittano, soffiano sul fuoco, organizzano contromanifestazioni e ronde per il ripristino dell’ordine nelle banlieue maledette, occupate dagli “stranieri”, dai musulmani, dagli arabi, dai negres. Al grido di “La Francia ai francesi”. Pregustando i prossimi successi elettorali.

E’ una vecchia storia. Non solo francese. Facevo il corrispondente dall’America quando nell’aprile del 1992 era esplosa la rivolta dei ghetti neri e ispanici di Los Angeles. Una giuria aveva assolto tutti e quattro i poliziotti che l’anno prima avevano pestato a morte un tassista nero, Rodney King. Eppure lo stesso capo della polizia di Los Angeles, Daryl Gates si era detto scosso dalla brutalità della scena: “Ho guardato lo schermo con incredulità. Ho voluto rivedere la sequenza del pestaggio, di un minuto e 50 secondi. Poi ancora e ancora, fino a quando l’ho visto venticinque volte. E ancora non riuscivo a credere a quello che stavo guardando. Vedere i miei agenti  […] colpire un uomo con i propri manganelli cinquantasei volte, vedere un sergente non fare nulla per prendere il controllo, era qualcosa a cui non avrei mai pensato di assistere”. Ma più brutale ancora era stata la reazione alla sentenza. Assistemmo in diretta tv, ripreso da un elicottero della polizia, al linciaggio di un camionista dai lunghi capelli biondi la cui una colpa era evidentemente di essere bianco. C’è una costante: i poveri Doc se la prendevano coi meno poveri di più recente immigrazione: i negozianti cinesi o coreani. L’ordine fu ripristinato dopo sei giorni di saccheggi, incendi e violenze, con una scia di 60 morti, migliaia di feriti. Ci volle il coprifuoco, l’intervento della Guardia nazionale e dei marines. Succedeva ogni estate, in questo o quel ghetto delle città americane. E succede ancora, ogni volta che un nuovo episodio di brutalità poliziesca innesca l’incendio. Complice, spesso, la gran calura, più insopportabile nei quartieri poveri che nei suburbia benestanti. 

Anche Londra non scherza in fatto di riots. Verso fine Ottocento, un imprenditore filantropo, Charles Booth, aveva disegnato, con pazienza certosina, grandi mappe colorate della povertà a Londra, strada per strada, isolato per isolato. Sono conservate al Museum of London, sono state oggetto recentemente di un’esposizione e una riedizione (Thames and Hudson). Non hanno più molto a che fare con la Londra di oggi, ma rivelano una particolarità: che lì i più poveri, le “classi pericolose”, non erano rinchiusi in ghetti a sé, ma hanno sempre abitato in mezzo ai ricchi. Le Council houses, le case popolari rappresentano un buon terzo dell’edilizia londinese. Ma sono sparpagliate in tutti i quartieri, anche quelli più chic. Nell’agosto del 2011 prima a Tottenham, poi Brixton e Hackney e altri quartieri periferici era esplosa la rabbia per l’uccisione da parte della polizia di un sospetto ventinovenne, di origini caraibiche. C’erano voluti sei giorni di violenze, saccheggi e incendi per riprendere il controllo. Brixton, all’estremo Sud, era esplosa già nel 1995, e con ancor più violenza nel 1981. Ora Brixton è tra le zone più care e ambite. Sempre sommosse razziali, partite da brutalità poliziesche ai danni di giovani delinquenti. La novità, negli ultimi anni, è che anziché “difendere” questo o quel quartiere degradato, i disordini si diffondevano in tutti i quartieri, prendendo di mira altre minoranze. I piccoli commercianti turchi avevano organizzato ronde di autodifesa. Gareth Millington dell’Università di York, le ha definite “anti-sommosse”, per distinguerle da quelle “classiche”. 

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