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L'analisi

La Cina non cresce più, e il problema è che non è una democrazia

Giorgio Arfaras

L'economia cinese è rimbalzata parecchio dai tempi della depressione da Covid, ma il ritmo del suo rimbalzo si sta affievolendo. Quello che manca è il traino dello "stato sociale" 

L’economia cinese ha registrato una crescita nel secondo trimestre molto più lenta di quella che aveva mostrato nel primo trimestre di quest’anno. È rimbalzata parecchio dai tempi della depressione da Covid, ma il ritmo del suo rimbalzo si sta affievolendo. Come mai? Il traino della crescita (di ogni paese) viene dai consumi, dalla spesa pubblica, dagli investimenti, dal saldo fra esportazioni e importazioni. Le famiglie cinesi, temendo che il peggio non sia passato, non si sono riversate a consumare come è accaduto negli Stati Uniti e, in misura minore, in Europa. In Cina, a differenza di quanto accaduto fra le due sponde dell’Atlantico, le famiglie non hanno ricevuto dei sussidi robusti da parte dello stato. E le famiglie non sono tornate a spendere nemmeno una parte maggiore del proprio reddito, perché preferiscono mantenere elevato il risparmio accumulato in vista di tempi che sospettano non migliori. Mentre fra due sponde dell’Atlantico i bilanci pubblici sono stati espansi in deficit molto (ma molto) più di quanto fosse accaduto una decina di anni prima ai tempi della crisi dei mutui sub-prime e quella greca, in Cina questo non è avvenuto se non in misura molto modesta. Quindi le famiglie non sono state aiutate, e non si è avuto il rimbalzo dei consumi di cui si diceva. La conseguenza è che non vi è stato il traino della spesa pubblica che spinge le famiglie a consumare.

Gli investimenti non potevano essere vivaci nel settore industriale ai tempi del Covid per la (ovvia) previsione che la domanda sarebbe stata molto debole. La capacità produttiva è tornata a essere sfruttata solo quando la Cina è uscita dal Covid, ma la domanda di beni e servizi, che è ciò che trascina gli investimenti, è tornata al livello ante crisi, e quindi non ha dato vita a un nuovo ciclo di investimenti. Alla staticità degli investimenti industriali va aggiunta la caduta di quelli immobiliari. Si ha, infatti, da qualche anno la crisi del settore immobiliare, oberato dal un eccesso di costruzioni sfitte per di più costruite a debito. Infine, le esportazioni e le importazioni. Se le prime sono maggiori delle seconde si ha un traino, e viceversa. Il saldo è stato per anni a favore delle esportazioni, ma negli ultimi tempi le esportazioni e le importazioni si sono compensate, anzi si registra un leggero prevalere delle seconde. Come si vede, quello che è mancato in Cina è il traino dello “stato sociale” o, se si preferisce, la “commistione fra capitalismo e democrazia”. Mancando questo traino, che sostiene i consumi in tempi di crisi, l’economia è meno governabile.

Zhang Jun, eminente economista e preside della scuola di Economia della prestigiosa Università Fudan, sostiene che, contrariamente alla narrazione occidentale che vede nello statalismo e non nel mercato la chiave del successo del suo paese  va cercata dell’iniziativa privata e nell’enormità del mercato interno, quest’ultimo legato alla sua popolazione immensa, che consente di distribuire, in poco tempo, i frutti delle innovazioni. In questo modo gli investimenti si ripagano in fretta e quindi le imprese possono continuare a innovare. Che è come dire (sotto traccia) che “noi cinesi non siamo statalisti, e il Partito comunista non è un freno per il dispiegarsi dello sviluppo trascinato dal mercato”. L’alta dirigenza cinese  vede nello sviluppo, aiutato dagli organismi locali dello stato, dell’alta tecnologia e nell’autosufficienza tecnologica il futuro del paese. Il settore statale, pur ritiratosi parecchio rispetto al mondo maoista, è però ancora presente in molti gangli vitali. E il Partito, che controlla lo stato, è intervenuto quando i grandi imprenditori cinesi hanno dato mostra di non essere del tutto controllabili. Ma forse il punto non è questo, quello della narrazione occidentale prevalente giudicata fuorviante dai cinesi, che pensano di non essere “statalisti” ma “mercatisti”.

Si ha, infatti, la “trappola dei paesi a medio reddito”. Trappola che si manifesta quando la grande crescita economica che si ha con l’urbanizzazione dei contadini che vanno nelle fabbriche a svolgere dei lavori che non richiedono particolari competenze si va esaurendo. Per uscire dalla trappola, per fare il passo successivo, non si può non imitare i paesi che ne sono usciti. Come? Con la stabilità che sorge dal “capitalismo combinato con la democrazia”. Con quest’ultima intendendo la certezza del diritto, libere elezioni, e l’uso dello stato sociale per ottenere il consenso. Un salto che in Cina non è stato ancora fatto.

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