Foto di Alexes Gerard su Unsplash 

Babele dell'anima

Il mistero delle Filippine, la nazione creata a immagine del desiderio altrui

Cristina Marconi

Il libro di Gina Apostol propone una edificante immersione nella storia del paese, dove i regimi autoritari prosperano in forme sempre più violente. Dalla dominazione spagnola fino alla dittatura coniugale di Ferdinand e Imelda Marcos

Con la sua copertina piena di mistero tropicale e il suo titolo classico, La rivoluzione secondo Raymundo Mata di Gina Apostol (Utopia, 416 pp., 19 euro) contiene la promessa di una edificante immersione nella storia di una nazione, le Filippine, “creata a immagine del desiderio altrui” e di cui spesso sappiamo colpevolmente poco. La prosa appare fin da subito fulminante, restituita appieno dalla traduzione di Alessandro Raveggi, e le osservazioni sulla storia, la politica e il mito così intelligenti da farci tornare indietro sulla pagina, desiderare di avere una matita, cercare un taccuino su cui prendere appunti. Tre studiose, una psicanalista, una traduttrice e un’accademica, non tutte sane di mente, si contendono l’interpretazione dello strampalato manoscritto, ritrovato in una scatola di biscotti di latta, di tale Raymundo Mata, giovane rivoluzionario alle prese con i moti di liberazione dalla dominazione spagnola, a fine Ottocento. “La nostra è una storia che invita i nevrotici a farsi avanti e a esprimere la propria opinione in merito”, scrive Apostol, che mette in atto questa sua intuizione letteraria in un romanzo di 400 pagine in cui la trama è volutamente paralizzata da un imponente paratesto di prefazioni e note che riportano i battibecchi, spesso esilaranti, tra le tre interpreti della vicenda di Mata, pronte ad analizzare e dare valore assoluto anche ai minimi dettagli, ai più scurrili. “Normalmente le memorie di un rivoluzionario emergono quando l’eroe è al di sopra di ogni sospetto, ossia quando il sogno che rappresenta è ormai morto e sepolto” e qui è proprio l’epica dell’eroe nazionale a venire messa sotto la lente dell’irriverenza, in un discorso che da una parte ha una sua portata universale e dall’altra è molto calato sulla realtà della storia delle Filippine, un paese la cui identità nazionale, piena di demoni molto reali, ha però al centro un’opera di finzione, Noli me tangere, di José Rizal, “fonte di Saggezza, Sacro Graal, Nostro Martire più prolifico, Origine della Nostra Storia e delle Parole”, la cui statua è presente in ogni piazza e le cui frasi sono mandate a memoria dagli scolaretti, ma che è scritto in una lingua, lo spagnolo, che nessuno legge più e che anche per questo contiene verità instabile come una barchetta in una laguna del paese-arcipelago.

E infatti Apostol, nata a Manila nel 1963, scrive in inglese e vive negli Stati Uniti, dove è apprezzata come “maga del linguaggio”, una definizione che basta la lettura di una pagina per attribuirle con convinzione, mentre il pensiero va a Roberto Bolaño, al Foster Wallace di Infinite Jest e alla matrice più evidente, Fuoco pallido di Nabokov. “Un’imponente babele dell’anima filippina ha come marinato il manoscritto di Mata usando una salsa di adobo, di pancit e di lugao”, e noi lettori in questa marinatura ci addentriamo, prima con divertimento, poi con ammirazione e infine con punte di inevitabile esasperazione nei confronti di una macchina narrativa che ci lascia spesso, e si sospetta volutamente, esclusi. Come se Gina Apostol volesse farci percepire intellettualmente la frustrazione, fatta anche di ironia e della profonda passione che ci vuole per litigare, di una storia nazionale in cui di comprensibile c’è solo che i regimi autoritari prosperano in forme sempre più violente, dalla dominazione spagnola durata dal 1521 al 1898, fino alla dittatura coniugale di Ferdinand e Imelda Marcos in cui è cresciuta la scrittrice e a quello attuale, sintomo di una stessa nevrosi: “Il paese in questione ha una storia di odio per se stesso che potrebbe non essere totalmente infondato”.

Di più su questi argomenti: