Che ci fa Kamala Harris su un'isola sperduta del Mar cinese del sud

Giulia Pompili

La vicepresidente un tempo considerata l’astro nascente dei democratici ha un ruolo cruciale in questa nuova fase di tentativo di dialogo con Pechino. Deve fare quello che Nancy Pelosi, ad agosto, ha fatto a Taiwan: dimostrare che l’America non cede ai ricatti della Cina

Ieri sera Kamala Harris è diventata il più alto funzionario americano ad aver mai fatto una visita sulle isole Palawan. La città di Puerto Princesa, capoluogo dell’arcipelago delle Palawan, è una delle destinazioni turistiche più popolari delle Filippine, tra spiagge incontaminate e cibo tradizionale. Ma Harris non è lì per quello. Puerto Princesa è  l’ultima frontiera orientale prima delle isole Spratly, un’area del Mar cinese meridionale che la Cina rivendica come propria e dove ha costruito isole artificiali militarizzate. E’ dalle  isole Spratly che si estende la lunga mano della militarizzazione di Pechino del Mar cinese meridionale, ed è quell’area che spesso viene indicata come quella più ad alto rischio incidente ed escalation, molto più dell’isola di Taiwan. E’ da quell’area che la Cina dipende per il suo export, dove passa l’80 per cento del commercio globale. Nel 2016 perfino la Corte permanente arbitrale dell’Aia, a cui si era rivolta il governo di Manila, aveva dato ragione alle Filippine e dato torto alla Cina: la sentenza diceva chiaramente che Pechino non aveva nessuna rivendicazione storica dell’area. Pechino aveva reagito come fa spesso, semplicemente dicendo: non è un tribunale che riconosco. E i lavori nelle isole artificiali erano continuati. 

 

 
La vicepresidente un tempo considerata l’astro nascente dei democratici ha un ruolo cruciale in questa nuova fase di tentativo di dialogo con Pechino inaugurato a Bali, poco prima del G20, durante il bilaterale tra il presidente americano Joe Biden e il leader cinese Xi Jinping. Kamala Harris deve fare quello che Nancy Pelosi, ad agosto, ha fatto a Taiwan e cioè: dimostrare che l’America non cede ai ricatti di Pechino. Non esistono luoghi che i funzionari americani non possono visitare a causa delle condizioni che pone il Partito comunista. Sono le basi del dialogo che pone Biden. A una domanda sulla visita di Harris a Puerto Princesa la portavoce del ministero degli Esteri cinese, Mao Ning, ha risposto ieri in modo sorprendentemente diplomatico: “Non siamo contrari all’interazione degli Stati Uniti con i paesi della regione” – e ci mancherebbe – “Ma dovrebbe essere positiva per la pace e la stabilità regionale e non danneggiare gli interessi degli altri paesi”. Gli altri paesi sono, va da sé, gli interessi cinesi. 

 

  
Certo che a Washington, e forse non solo, c’è un problema Harris. E’ poco popolare, è poco incisiva, e  da qualche tempo le vengono assegnati alcuni dei dossier asiatici più complicati – quelli che di solito sono gestiti dal segretario di stato. E’ stata la prima dell’Amministrazione Biden a viaggiare nel sud-est asiatico nel pieno della pandemia, è stata a settembre sulla Zona demilitarizzata tra Corea del nord e Corea del sud mentre da Pyongyang le inviavano messaggi provocatori intensificando i lanci missilistici. Ieri è stata la prima rappresentante della presidenza degli Stati Uniti a incontrare il nuovo presidente filippino Ferdinand Marcos Junior – figlio del presidente-dittatore delle Filippine dal 1965 al 1986 e dell’ex first lady Imelda Marcos, eletto a giugno – e l’attuale vicepresidente Sara Duterte – figlia del controverso ex presidente delle Filippine Rodrigo Duterte, che si è distinto negli ultimi sei anni per la violazione dei diritti umani e della libertà d’espressione nel paese, e pure per un allontanamento dall’America in favore di un rapporto bilaterale più intenso con Pechino. Prima di volare a Manila, Kamala Harris era stata a Bangkok al vertice Apec, il più importante Forum di cooperazione economica dell’Asia-Pacifico, e lì aveva incontrato “brevemente” il leader cinese Xi Jinping (nel gergo diplomatico vuol dire che si sono appena salutati). Lei stessa aveva scritto su Twitter di aver portato al leader cinese il messaggio di Biden: “Ho ribadito il messaggio chiave: dobbiamo mantenere le linee di comunicazione aperte per gestire responsabilmente la competizione tra i nostri paesi”. Ecco il punto: la  competizione tra le prime due economie del mondo è ormai ufficiale, Washington e Pechino si trattano alla pari. Le regole d’ingaggio, però, l’America non se le fa  più dettare da Pechino.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.