(Foto di Ansa) 

Le elezioni

Nelle Filippine trionfa Marcos jr. Addio transizione democratica

Massimo Morello

Corsi e ricorsi storici per il popolo asiatico: ai seggi hanno vinto le proposte populiste di Bongbong, figlio dei coniugi Marcos, fautori di un regime controverso negli anni '60 

Bangkok. “Questo l’ha fatto Imelda…Questo l’ha fatto Marcos…” Qualche anno fa, in giro per le Filippine, le attribuzioni di meriti alla famiglia Marcos erano continue. Verrebbe da dire che anche Marcos, noto per le violazioni dei diritti umani e per aver instaurato una vera e propria cleptocrazia, e sua moglie Imelda, famosa per la sua collezione di 3000 scarpe, “hanno fatto qualcosa di buono”.

Anche per quel “qualcosa di buono”, divenuto un’“età dell’oro”, trentasei anni dopo che il patriarca Ferdinand è stato deposto da una rivolta popolare, nel 1986, Ferdinand Marcos Junior detto Bongbong ha vinto le presidenziali filippine. Ieri notte era “vicino a un trionfo”, con più del doppio di suffragi rispetto alla sua rivale Leonor “Leni” Robredo. Trionfante anche Sara Duterte-Carpio, figlia dell’ex presidente Rodrigo Duterte, eletta vicepresidente col triplo dei voti del suo oppositore più vicino. Nelle Filippine, infatti, presidente e vice sono eletti separatamente. Il che può creare notevoli problemi, come quelli creati a Duterte dalla sua vice Leni Robredo eletta nel 2016 proprio contro Marcos jr. Nel caso della coppia Marcos-Duterte, invece, si tratta di una sorta di unione dinastica, sancita dalle affinità tra il vecchio Marcos e Duterte, accusato di crimini contro l’umanità per la campagna antidroga che ha lasciato nelle strade migliaia di morti. Azioni che i filippini sembrano approvare, dato che allo scadere del suo mandato il suo indice di gradimento è del 67 per cento. L’ascesa di questi princìpi ereditari, che in occidente appare come uno scherzo della storia, è la prova del fallimento della transizione alla democrazia avviata dopo la caduta di Marcos.

Un fallimento dovuto a un sistema politico in cui il potere e la ricchezza sono concentrate nelle mani degli hidalgo, che controllano un paese definibile “Asia latina” per la sua storia di colonizzazione spagnola. Un paese dove milioni di filippini vivono al di sotto della soglia di povertà, circa dieci milioni sono emigrati, moltiplicando gli “orfani bianchi”, ragazzi che abbandonano la scuola, sono consumatori abituali di shabu, una potente metanfetamina, sempre più esposti al rischio crimine. In realtà, più che ai meriti del padre, la vittoria di Bongbong è dovuta a una narrazione frutto di fortissimi investimenti sui social media. Basta leggere la biografia di Marcos padre su Wikipedia: “Marcos avviò un ambizioso progetto di opere pubbliche e di intensificazione nella riscossione delle imposte che condusse il paese verso un periodo di prosperità economica”.
La beatificazione di Marcos è stata accompagnata da una demonizzazione della candidata avversaria, accusata di collusione con i gruppi comunisti armati. La Robredo, a sua volta, ha accusato Marcos di essere un bugiardo. Forse per questo, secondo un filippino emigrato negli Stati Uniti, Bongbong vuol dire bugiardo. Nelle Filippine quasi tutti hanno un soprannome, ma nella maggior parte dei casi non si sa da che cosa derivino. Per spiegare Bongbong, quindi, si trovano spiegazioni politiche. Per un altro emigrato significa ladro, per un altro ancora portatore di speranza e per un altro bell’uomo. Anche questo dimostra la vacuità di una nazione arcipelago dalla posizione ultra strategica tra il Mar cinese meridionale e l’Oceano Pacifico, dai confini culturali intricati come le sue coste, la cui storia è narrata dai milioni di storie della sua diaspora. 


Il problema della Robredo non è il modo in cui è rappresentata, bensì quello in cui è percepita proprio da quella stessa popolazione: come una rappresentante dell’oligarchia. E’ per questo che non si è presentata nelle fila del suo partito, il Liberal Party, ma come indipendente. La sua idea di “rivoluzione rosa”, dal colore che ha scelto per simbolo, si proponeva di unire tutte le forze dell’opposizione e replicare quella rivoluzione democratica che aveva deposto Marcos nel 1986 innescando un processo di sviluppo sociale e culturale. Secondo Richard Heydarian, analista politico al Politecnico delle Filippine, con la sconfitta di questo progetto si conferisce spazio di manovra ai progetti autoritari che l’ex presidente Duterte non era riuscito a portare a termine: una riforma costituzionale preludio alla concessione di poteri straordinari al presidente. Il populismo avrà generato l’ennesima autocrazia.

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