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L'analisi

Sul Bosforo ci sono i guai più evidenti dell'Alleanza atlantica

Vittorio Emanuele Parsi

In alto i calici per il rafforzamento del fronte nord ed est della Nato, ma a sud c’è un problema: Ankara continua a non avere un comportamento del tutto “affidabile”

Il disco verde turco all’ingresso della Svezia nella Nato è un’ottima notizia, la cui rilevanza storica non può essere derubricata: tanto più in questo momento storico (mentre continua la selvaggia aggressione russa all’Ucraina) e politico (per le tensioni relative alle differenze tra Stoccolma e Ankara sulla deferenza “dovuta” ai simboli religiosi e circa l’interpretazione del concetto di terrorismo). Se era scontato che Recep Tayyip Erdogan prima o poi dovesse mollare (soprattutto una volta incassato l’ennesimo benché risicato successo elettorale e avendo ottenuto tutto quello che poteva ottenere dal braccio di ferro con gli altri alleati), assai meno era che lo facesse ora. Quindi, in alto i calici! Vladimir Putin si rivela anche in questo campo il nemico pubblico numero uno del suo stesso delirio imperiale. In chiave di contenimento del revanscismo russo, l’accoglimento nell’Alleanza di Svezia e Finlandia rinforza anche il confine settentrionale della Nato (e dell’Ue), quello artico. Dall’Alaska alla Svezia la Nato è ora in grado di fronteggiare meglio lo schieramento militare russo nella regione il quale è tornato a costituire un fiore all’occhiello dell’apparato militare russo, per quanto menomato dal contributo fornito alla guerra in Ucraina. Il surriscaldamento planetario e lo scioglimento della calotta artica hanno reso il confine settentrionale meno “naturalmente” protetto di quanto fosse prima e l’apertura di tre rotte artiche principali (siberiana, canadese e azimutale) rende necessaria una maggiore e più intensa copertura del fianco nord dell’Alleanza.


Svezia e Finlandia forniscono un prezioso contributo anche al rafforzamento del fianco est, evidentemente, dando profondità strategica alle tre repubbliche baltiche, facendo dell’omonimo mare un “lago della Nato”, fatta salva l’exclave russa di Kaliningrad (in Prussia orientale) e il litorale di San Pietroburgo. In prospettiva, l’ingresso dell’Ucraina nella Nato – inevitabile a questo punto – fornirà un ulteriore decisivo rafforzamento, aggiungendo al dispositivo militare dell’Alleanza un esercito combattivo, provato ma anche sperimentato e reso più consapevole del suo valore dalla durissima prova cui è stato costretto. Sarebbe stato impossibile farlo ora, a guerra ancora in corso. Oltre tutto, mentre la necessità politica di una piena membership di Kyiv è ampiamente – ma non unanimemente – condivisa, ci sono invece sensibilità diverse da tenere in considerazione riguardo alla tempistica, oltre agli equilibri politici interni dei paesi membri e alle loro opinioni pubbliche. Lo abbiamo visto bene sul tema delle bombe a frammentazione – richieste da Volodymyr Zelensky e accordate da Joe Biden, considerato che i russi le impiegano sugli ucraini dall’inizio della guerra – e più in generale sulle difficoltà a incrementare la produzione di munizioni e armamenti da parte dei nostri sistemi produttivi, anche quando le facilitazioni normative ed economiche lo consentano: si veda la decisione unilaterale italiana di non impiegare risorse del Pnrr per incrementarla nonostante l’autorizzazione europea.

Il Baltico diviene quindi un mare ancora più chiuso per i russi di quanto non sia il Bosforo. Ma è proprio sul Bosforo, sul lembo orientale del fianco sud della Nato che si intravedono problemi crescenti. Nonostante l’ok dato a Stoccolma, Ankara continua a non avere un comportamento del tutto “affidabile” (leale sarebbe la parola giusta). La Turchia che controlla gli stretti consente però una continua e massiccia violazione delle sanzioni occidentali verso Mosca, permette aggiramenti massicci dell’embargo, offre più che una sponda un vero e proprio approdo agli operatori finanziari russi in cerca di fortuna. Erdogan ostenta un’amicizia personale con Putin degna del defunto Berlusconi e i toni sprezzanti che spesso impiega verso le democrazie sue alleate hanno poco da invidiare a quelli del boss del Cremlino. Nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale l’atteggiamento turco è molto aggressivo e non particolarmente attento a conciliare il proprio interesse nazional-energetico e quello di altri paesi (Grecia, Egitto, Italia e Francia). Nel medio oriente, Ankara mantiene ben salda la triangolazione con Teheran e Mosca (cosa che non può certo essere vista di buon grado da Stati Uniti ed Europa) e in Libia l’avventurismo turco è sotto gli occhi di tutti.


Sono anche questi i fattori che richiedono di dedicare maggiore attenzione al fronte sud. Anche perché Mosca ha dimostrato di essere pronta a giocare qualunque carta per riuscire ad alimentare tensioni politiche interne alle democrazie europee, e a moltiplicare potenziali teatri di presenza e intervento per le Forze armate dei paesi della Nato. Mosca contesta l’ordine regionale e internazionale e ritiene che qualunque destabilizzazione giochi a suo favore. Basti vedere il balletto sull’accordo del grano e la stessa decisione di far saltare la diga di Nova Kakhovka, un mese fa, che renderà inutilizzabili quei terreni agricoli per anni (a causa dell’inquinamento), contribuendo a mantenere elevato il prezzo del grano, con conseguenze evidenti sui paesi africani e arabi e con un’influenza indiretta sui flussi migratori. Bene ha fatto quindi la premier Meloni a sottolinearlo al vertice di Vilnius: non per smarcare l’Italia rispetto ai propri doveri verso la difesa comune a est, ma per rammentare alla Nato la responsabilità collettiva nei confronti della porosa e instabile frontiera meridionale.

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