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Quanto regge una dittatura in crisi? Dipende dalle sue origini

Giorgio Arfaras

Le grandi autocrazie come Cina, Russia e Iran sono sorprendentemente solide grazie alla loro origine rivoluzionaria. È questa la spiegazione offerta da Steven Levitsky e Lucan Way, autori di "Revolution and Dictatorship"

C’è qualcosa che rende le grandi autocrazie come la Cina, la Russia e l’Iran solide quando le cose sono messe bene, ma anche quando le cose sono messe male? Secondo Steven Levitsky e Lucan Way, autori di Revolution and Dictatorship, The Violent Origins of Durable Authoritarism (Princeton U.P., 2022) questo qualcosa esiste e va cercato nell’origine rivoluzionaria di queste tre autocrazie che, grazie alla loro origine, sono molto più solide delle autocrazie che non hanno origini rivoluzionarie.

Queste tre autocrazie sono sorte dalle rivoluzioni, le quali si impongono quando le avanguardie sostenute dalla mobilitazione delle masse prendono il controllo e cercano di rifare lo stato per trasformare radicalmente il mondo. Nel caso russo e cinese, abolendo la proprietà privata con tutto quel che implica. Nel caso iraniano, imponendo una vita regolata dalla religione nella massima misura. Le rivoluzioni, che fra maggiori e minori sono una ventina nel XX secolo, hanno avuto una enorme influenza. L’internazionalismo proletario e la Guerra fredda con l’Unione sovietica, l’espansione islamica con l’Iran, e, ultimamente, l’ascesa della Cina a potenza mondiale.

Oltre all’influenza sulle sorti del mondo, i regimi di autocrazia sorti dalle rivoluzioni tendono a durare molto più delle altre autocrazie non rivoluzionarie. La loro durata ha origine nelle modalità con cui hanno consolidato il loro potere. Al contrario degli autocrati non rivoluzionari che cercano, quando salgono al potere, un sostegno popolare esteso quanto più possibile, nonché una qualche legittimità internazionale, i leader dei regimi rivoluzionari tagliano i ponti con ampie fasce della popolazione e si oppongono alle potenze mondiali. Ciò che, invece di uccidere nella culla questi regimi, li rende più forti. Come mai? 

Le minacce esistenziali legate al taglio violento con la propria popolazione e con il resto del mondo unisce le élite di questi regimi. Per eliminare le strutture politiche, religiose, amministrative e militari esistenti le autocrazie rivoluzionarie costruiscono nuove e potenti forze di sicurezza, come il famigerato Kgb. Inoltre, i governi rivoluzionari creano le proprie forze armate piuttosto che ereditare l’esercito esistente; ciò che rende molto difficile per le élite sconfitte organizzare i colpi di stato. Infine, poiché le guerre civili hanno distrutto le strutture economiche, si crea lo spazio per penetrare in profondità nell’economia. Ciò consente agli autocrati di promuovere lo sviluppo senza dover fare i conti con quelle forze, come la borghesia imprenditoriale, che hanno contribuito a promuovere la democrazia. Una differenza fra le autocrazie con origine rivoluzionaria e il fascismo e il nazismo va quindi cercata nel controllo delle forze armate che nel caso delle due dittature europee erano rimaste nelle mani delle vecchie élite e nella penetrazione completa nell’economia.

Il regime cinese rimane più forte delle sue controparti iraniana e russa. L’economia cinese è in condizioni molto migliori di quella iraniana ma anche di quella russa. Sebbene il potere di Xi Jinping sia meno limitato di quello dei suoi predecessori recenti, il suo governo, a differenza di quello di Vladimir Putin, è molto meno centrato sul leader. Il regime di Xi è radicato nella robusta burocrazia partito-stato che non ha equivalenti in Russia. La Cina ha oggi i classici problemi legati all’esaurimento della fase iniziale di ogni grande sviluppo economico, quello legato all’urbanizzazione e alla demografia positiva. E’ però difficile che un’economia poco vivace possa creare un dissenso tale che metta in crisi il regime. La stabilità dell’autocrazia cinese è legata alla sua potente burocrazia, alla notevole capacità repressiva, e alla debole società civile.

A differenza della Cina comunista e dell’Iran islamista, la Russia di Putin non è un regime rivoluzionario. L’Unione sovietica è crollata da molto tempo e Putin non è salito al potere attraverso una rivoluzione violenta, ma attraverso delle elezioni. Putin ha però tratto lo stesso un gran vantaggio dalla rivoluzione bolscevica. Il regime sovietico aveva impedito l’affermazione di una forte società civile che non è emersa con forza nemmeno dopo la caduta dell’Unione sovietica. Sono emerse delle forze economiche indipendenti che però non sono mai cresciute troppo, perché i settori più redditizi dell’economia, quelli legati alle materie prime non rinnovabili, sono rimasti sotto il controllo statale. Di conseguenza, all’eventuale opposizione sono mancate  l’organizzazione e le fonti di finanziamento. Infine, il controllo di Putin sulla Russia è stato rafforzato un vasto servizio di sicurezza la cui origine è nella polizia politica creata con la rivoluzione bolscevica.

Il caso iraniano illustra l’importanza dell’unità al vertice per la sopravvivenza dell’autocrazia. Storicamente, le più grandi minacce dei dittatori non sono venute dalle proteste di massa, ma dagli alleati politici e dalle forze armate. In Iran i politici con posizioni moderate non hanno mai rotto con il regime. Questa lealtà ha contribuito a privare l’opposizione dell’organizzazione e della leadership di cui avrebbe avuto bisogno per incanalare il malcontento popolare verso una sfida efficace. Le proteste, il malcontento e la crisi economica possono certamente rendere vulnerabile il regime iraniano, ma è improbabile che questo possa cadere senza crepe ai vertici.

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