deserto russo

La ruspa di Putin contro la dissidenza accelera

Micol Flammini

Dal giornale Meduza al Centro Sakharov, a Mosca vengono bandite testate e chiuse istituzioni storiche. Il presidente si è fatto più insicuro e cancella tutto ciò che non somiglia a lui e alla sua idea di nazione. La desertificazione della Russia

Nel 2021, la notizia che il deserto stesse avanzando in Russia venne accolta con una discreta preoccupazione. Dalla regione della Calmucchia, neppure troppo lentamente, le sabbie potrebbero procedere e cancellare piccoli villaggi, erodendo la ricchezza paesaggistica della Russia dove, a detta di alcuni esperti, gli effetti del cambiamento climatico si fanno sentire al doppio della velocità. 

 

La desertificazione della terra non è stata inserita tra le priorità del Cremlino, ma viene spesso usata come immagine potente per raccontare la desertificazione culturale e politica  che il presidente Vladimir Putin sta imponendo al suo paese. Questa settimana le sabbie della censura hanno oscurato istituzioni importanti della vita culturale russa, molte testate sono state dichiarate “indesiderabili”, etichetta che porta alla dissoluzione: un giornalista  o chiunque distribuisca o diffonda materiale di una testata indesiderabile potrà essere incriminato. Il sito Meduza è tra questi, si rivolge a un pubblico russo e internazionale, ha aperto la sua redazione in Lettonia nel 2014 per  raccontare come si stava trasformando la Russia, come la democrazia si stava erodendo, coperta dall’incedere di una desertificazione politica. I giornalisti di Meduza hanno scritto una lettera per rispondere alla decisione della Giustizia russa e il messaggio alle istituzioni è chiaro: se è una battaglia quello che volete, una battaglia è quello che otterrete. “Crediamo nella libertà di parola. Crediamo in una Russia democratica. Maggiore è la pressione contro di noi e contro i nostri valori, più strenuamente resisteremo”. La sabbia avanza e soffoca tanto la terra quanto la vitalità di un popolo, ma la promessa di Meduza e di altre testate finite sotto l’etichetta di organizzazione indesiderabile è di continuare ad alimentare, a dare aria a quella Russia che da sotto il deserto crede ancora nella democrazia. 

 

Questa settimana in Russia è stato liquidato il Moscow Helsinki group, nato negli anni del Disgelo di Kruscev, quando si era affacciata in Unione sovietica l’illusione di un’apertura sul fronte dei diritti. Con la fine dell’illusione era finito anche il Moscow Helsinki group, che poi era rinato quando, con la fine della Guerra fredda, non ripetere gli stessi errori del passato, preservare una democrazia tutta da costruire era diventato un imperativo: ragionare sulla propria storia è uno degli esercizi più salutari che una nazione possa compiere, associazioni come Memorial o come il Moscow Helsinki group si proponevano di fare in modo che la Russia non fosse da meno. Nei primi anni della sua presidenza scandita da quattro mandati,  Putin ha prima lasciato aperta la stampa, anche quella contraria, infliggendole colpi mortali nella speranza che fossero discreti. Accoglieva gli inviti di organizzazioni per i diritti, presentandosi talvolta anche con i fiori in mano. Non che prima li approvasse, si credeva più forte e,  nella parvenza di una democrazia con cui pretendeva di agghindare la Russia,  doveva lasciare vive anche queste organizzazioni. La cultura occidentale che a Mosca aveva un mercato fertile, sta scomparendo e il Cremlino sta chiudendo Mosca in una bolla arida di opere propagandistiche: da febbraio i film di Harry Potter non saranno più disponibili in Russia perché il contratto con le piattaforme di streaming non sarà rinnovato. Era stato l’oppositore russo, Alexei Navalny, rinchiuso da quasi due anni in una colonia penale, a raccontare la sua storia e l’opposizione a Putin ricalcando i passi dei romanzi di J. K. Rowling e parlando del presidente come di un Voldemort molto solo.

 

Anche i palazzi di Mosca stanno perdendo il loro significato, si stanno svuotando, immobili  nel deserto voluto dal Cremlino. Sempre questa settimana il Centro Sakharov, un altro importante ente per i diritti umani che prende il nome dal fisico dissidente sovietico e premio Nobel per la Pace Andrei Sakharov, ha perso le sue sedi, che prima gli venivano garantite dalla città di Mosca. Una delle più importanti era  l’archivio, raccolto nella casa in cui abitava Sakharov in via Zemljanoj Val e che negli anni  si era trasformata nella sede degli ultimi saluti: anche quello all’oppositore  del capo del Cremlino Boris Nemcov, ucciso nel 2015,  fu organizzato nella casa  di Sakharov. 

 

L’accelerazione della repressione salta all’occhio e se un Putin molto sicuro di sé fingeva di convivere con la democrazia, ora, che probabilmente ha perduto tanta certezza, vuole un paese a sua immagine. Immaginava forse una taiga resistente a tutto e poco importa se ne uscirà un deserto.

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.