ragazze della resistenza

La rete clandestina delle giornaliste di Teheran

Cecilia Sala

Lottare e sparire nel giorno del compleanno. La storia di Maryam Vahidian odiata dal regime e le college di Shargh: "Ha sempre fatto vedere le sue trecce in strada e in redazione"

Alla fine del 2022, in Iran, si è formata una rete clandestina di giornaliste con un incarico formale nel circuito delle informazioni ufficiali e un lavoro vero, nascosto e sotterraneo, per aggiornare le famiglie del destino dei figli ventenni condannati a morte, per avvisare i manifestanti delle trappole mortali dei bassiji agli angoli di una strada dove sarebbe dovuto scorrere un corteo, per spiegare la dinamica di un omicidio di stato a un collega in occidente. E’ un lavoro da equilibriste in cui a ogni movimento si rischia lo stipendio e la libertà, oppure che un famigliare venga incriminato per un reato che non ha commesso e la sua detenzione venga usata come arma di ricatto per ottenere i nomi e i segreti delle altre. Il 6 dicembre Maryam Vahidian ha organizzato a casa sua una festa per il suo compleanno: prima della torta sono arrivati gli uomini dell’intelligence dei pasdaran, armati e con due pacchi regalo vuoti: sarebbe stato il primo di una serie di gesti irrisori. Hanno sequestrato i telefoni di tutti gli invitati, li hanno perquisti e interrogati e  hanno fatto sparire Maryam. 

 

Vahidian è una giornalista specializzata in temi sindacali odiata dal regime dai tempi in cui seguiva le proteste dei contadini di Isfahan represse con gli incendi appiccati dalla polizia alle tende in cui dormivano i partecipanti al raduno. Si è laureata alla facoltà di Fisica dell’Università di Teheran e lì ora c’è un grande striscione con sopra il suo nome appeso ai davanzali delle finestre. La notte in cui è sparita aveva appena compiuto trentuno anni. In sette giorni nessuno ha risposto agli appelli dei colleghi per la sua liberazione: non c’è stata una notifica ufficiale del suo arresto, non si sa di cosa sia accusata e non si sa dove sia stata portata. 

 

Maryam Lotfi lavora a Shargh, lo stesso giornale di Vahidian, e dice: “Ogni giorno passo per il corridoio della redazione e il mio collo si gira verso la sua scrivania nella speranza che sia tornata all’improvviso così com’è sparita”.  La più giovane della rete non ha ancora compiuto vent’anni e fa la programmatrice per un canale televisivo  mentre studia al primo anno di Ingegneria informatica all’università. Indossa il velo solo in ufficio e la sera incrocia i dati raccolti con gli strumenti di intelligence open source.  Prova a tracciare e geolocalizzare gli arresti e gli omicidi della repressione, poi stila delle liste e le aggiorna. Il suo database è a disposizione dei manifestanti, e delle madri e dei padri che non trovano più i loro figli. 

 

La più grande ha quarant’anni, è una firma conosciuta nel settore del giornalismo economico della Repubblica islamica  e ha un figlio terrorizzato dalle incursioni degli uomini dell’intelligence dei  pasdaran che bussano la notte, sempre intorno alle undici, per controllare tutto e portare via qualcosa: l’ultima volta è stato un tablet. La chiameremo N. per proteggere la sua identità, dice al Foglio: “Sono piena di amiche, giornaliste e scrittrici, che non hanno più la porta di casa perché gliel’hanno sfondata i Guardiani.  Sabato e domenica mi hanno interrogato per otto ore e hanno minacciato di arrestarmi. Volevano che non scrivessi una riga sulla rivoluzione di Azadi (libertà, ndr). Mentre digito c’è una collega accanto a me che rischia la galera per aver scritto un pezzo su un bambino di 10 anni ammazzato dai bassiji. Trattano le persone comuni in modo più brutale e crudele di quanto facciano con noi perché pensano che le loro voci non vadano da nessuna parte, e torturare le persone comuni è più facile che fare lo stesso con quelle conosciute. Noi cerchiamo di rimanere in libertà affinché fermare quelle voci sia impossibile. La Repubblica islamica è piena di propagandisti all’estero pagati per raccontare la  versione dei fatti che piace ai vertici, il problema è che dentro casa in Iran a quella versione non crede più nessuno. Nessuno di quelli che scendono in piazza, o di quelli che fanno il tifo dalle case, o di quelli che cercano di essere utili con  il proprio lavoro”.  N. ha i capelli sciolti anche nelle foto ufficiali e non rispettava la legge che impone alle donne l’hijab già prima della morte di Mahsa Amini mentre era in custodia della polizia religiosa e dell’inizio delle proteste. Maryam Vahidian ha sempre fatto vedere le sue trecce in strada e in redazione. 

 

A ogni messaggio mandato a un’organizzazione umanitaria internazionale o a un collega straniero si rischia l’incriminazione per spionaggio in favore di una nazione ostile, che può convertirsi in una condanna all’ergastolo e alla tortura come mezzo per ottenere una confessione insincera. Per questo si comunica con l’esterno soprattutto con un iPad che è nella casa di un’amica della nonna di N., dove ogni settimana ci si vede per giocare ad As-Nas, un antico gioco di carte persiano, e per mandare le mail e i video sulle applicazioni criptate con cui  raccontare l’Iran a chi lo guarda solo da fuori.

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