I regimi temono di morire più di chi li combatte. Contro l'indifferenza

Paola Peduzzi

Dall'Iran all'Ucraina, quando s'inverte il corso della paura la battaglia per la vita prende significato ovunque: se qualcuno non lo vede è perché guarda altrove

Milano. “Dov’è che cominciano i diritti umani?”, disse Eleanor Roosevelt, la first lady americana che contribuì alla definizione della dichiarazione dei diritti umani dell’Onu, approvata 74 anni fa oggi: “Nei posti piccoli, vicini a casa – così vicini e così piccoli che  sulla mappa non si vedono. Eppure sono il mondo di ognuno di noi: il quartiere in cui viviamo, la scuola o l’università che frequentiamo, la fabbrica, la fattoria o l’ufficio in cui lavoriamo. Sono i luoghi in cui ogni uomo, donna e bambino cerca pari giustizia, pari opportunità, pari dignità senza discriminazioni. Se questi diritti non hanno un significato in questi luoghi, hanno poco significato ovunque”. La battaglia per i diritti umani  è il fiume carsico della politica internazionale, emerge e s’immerge a seconda delle opportunità e delle convenienze. Ieri il ministro degli Esteri inglese, James Cleverly, ha scritto sul Guardian: “Spero che non mi sentirete mai dire ‘sono preoccupato’ o ‘sono molto preoccupato’ o peggio ‘sono profondamente preoccupato’ per una violazione dei diritti in corso senza poi un elenco delle azioni che voglio intraprendere per punire quelle violazioni”.

 

C’è chi si preoccupa e condanna repressione e violenze e bombe da lontano con retoriche consunte; c’è chi compila elenchi di sanzioni e dove prima metteva le transazioni finanziarie illegali come motivazione oggi specifica: “violatore di diritti umani”; e c’è chi in nome del diritto piccolo e vicino, la quotidianità dell’essere liberi, sfida i cecchini come in Iran, non si fa intimorire dai corpi esposti degli impiccati lasciati lì a dire: se continui a protestare, il prossimo sei tu, si espone, osa, canta, urla. Diciottomila incarcerati sono un’enormità: oggi subiscono interrogatori, torture, stupri ma domani rischiano di essere dimenticati, quando il fiume carsico si inabisserà accontentandosi di qualche cosmesi da regime. 

 

La paura più grande per gli iraniani che manifestano da quasi novanta giorni è di non essere visti – è la paura di tutti. Di una intera generazione di bielorussi che è finita in  galera per aver protestato contro il regime di Lukashenka; dei cinesi che nelle settimane scorse hanno avuto l’ardire di opporsi a Xi Jinping e poi sono stati prelevati in casa dalle forze dell’ordine, e non se n’è più saputo nulla. Dei russi che finiscono nelle colonie penali per anni e anni soltanto per aver chiamato “guerra” una guerra. Degli ucraini decimati dal terrore di Putin, deportati non si sa dove, torturati e gettati moribondi e legati per strada oppure nelle fosse comuni, morti o mezzi morti non importa, perché la vita umana non ha valore,  è merce di scambio se e quando è utile. Queste battaglie così diverse tra loro nelle ragioni e nei modi sono figlie dello stesso coraggio delle persone (e dell’ispirazione, dell’esempio dello spirito ucraino che ha ricacciato indietro l’orrore di Putin): la voglia di libertà, la solidarietà dei diritti nei posti piccoli, nella mia casa o nella mia scuola, hanno il sopravvento sul pericolo di essere ammazzati. Quando s’inverte il corso della paura, quando i regimi temono per la propria sopravvivenza più di quanto facciano le persone, la battaglia per la vita prende significato ovunque: se qualcuno non lo vede è perché guarda altrove.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi