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Messaggi a Pechino 

Il Viminale indaga sulla polizia cinese, ma manca un pezzo

Giulia Pompili

Piantedosi fa il prefetto e durante un'interrogazione alla Camera evita le risposte politiche sul caso. Meloni e le estreme cautele con la Cina. Prima il business italiano

Alla fine il ministro dell’Interno, il prefetto Matteo Piantedosi, ha fatto il prefetto. Ieri, rispondendo a un’interrogazione a risposta immediata del deputato di +Europa Riccardo Magi, il titolare del Viminale ha detto che nessuno a Roma ha mai autorizzato l’apertura delle cosiddette “stazioni di polizia” cinesi in Italia, e che polizia e intelligence stanno “facendo approfondimenti”. Il ministro ha parlato  per la prima volta di una questione che è di dominio pubblico da almeno due mesi, e che, soprattutto in Europa, ha aperto un dibattito sulla necessità di maggiori controlli sulle attività svolte nell’ombra dalla Cina all’estero. Sempre ieri la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, in un’intervista a Federico Fubini sul Corriere della Sera, ha detto di essere “profondamente preoccupata” dalle notizie sulle stazioni di polizia cinese presenti sul territorio dell’Unione. 

Von der Leyen ha anche annunciato che la commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, solleverà la questione al Consiglio dei ministri degli Affari interni di oggi. E’ una questione di sovranità nazionale degli stati membri, ha detto von der Leyen, ma che necessita una risposta politica, soprattutto nel momento in cui la Cina è sempre più chiusa, autoritaria e minacciosa e il consenso sulla sfida che pone il nostro rapporto con Pechino è sempre più trasversale.

In Italia, il ministro Piantedosi è stato molto preciso nel suo intervento sulla questione, con estrema pignoleria: ha spiegato com’è stata svolta l’indagine attorno alla prima “stazione di polizia” cinese di cui è stata verificata l’esistenza, quella nella città di Prato. A marzo l’associazione culturale della comunità cinese di Fujian in Italia ha aperto una “stazione di Polizia d’oltremare di Fuzhou”. Dopo l’inchiesta del Foglio e il report della ong Safeguard Defenders, e il successivo rilancio mediatico della questione sulle testate internazionali, la polizia di stato ha “avviato gli accertamenti”. Il presidente dell’associazione è stato convocato in questura e ha dichiarato che la “stazione di polizia” serviva in realtà al “rinnovo di patenti cinesi e in materia di successioni”, visto che la pandemia aveva bloccato i cittadini cinesi in Italia. I servizi sarebbero stati chiusi perché “avrebbero riscosso anche uno scarso interesse atteso il numero esiguo di richieste pervenute (solo quattro)”, ha detto Piantedosi. La notizia, però, è che il 16 novembre scorso l’ufficiale di collegamento dell’ambasciata della Repubblica popolare cinese (l’uomo che nella gigantesca sede diplomatica cinese a Roma tiene i rapporti con le Forze dell’ordine straniere, quasi sempre un militare) sarebbe stato convocato al Dipartimento della pubblica sicurezza del Viminale. L’ufficiale avrebbe confermato la versione delle attività puramente amministrative delle “stazioni” – che collegano via webcam i cittadini cinesi in Italia con la polizia cinese in Cina. Non ci sarebbero ancora conferme sull’esistenza di simili uffici in altre città, oltre a quelle di Prato e di Milano, ma le indagini sarebbero ancora in corso. E Piantedosi ha confermato di voler seguire “personalmente” gli sviluppi della questione. 

Il ministero dell’Interno dà una risposta sul caso specifico – sebbene un po’ in ritardo rispetto agli altri paesi europei – ma omette la parte più importante, e cioè: la risposta politica. Intelligence e polizia sono attive sul caso delle “stazioni di polizia”, eppure Piantedosi non ha espresso nessuna linea d’indirizzo sui rapporti dell’Italia con la Cina, soprattutto su una questione che riguarda anche la sicurezza nazionale. E’ rimasto freddo, prefettizio, appunto, anche quando ha spiegato che le stazioni di polizia non c’entrano nulla con i rapporti dell’Italia con il ministero della Sicurezza cinese e soprattutto con l’intesa firmata nel 2015 all’Aia per i pattugliamenti congiunti tra Italia e Cina. L’esecutivo Meloni si è insediato dopo aver manifestato più volte la volontà di un cambio di passo nei rapporti con Pechino dopo le sbandate pro Cina dei governi precedenti. Il ministro della Difesa Guido Crosetto, due settimane fa, ha detto a questo giornale di vedere “improbabile” un rinnovo della Via della Seta tra l’Italia e la Cina. Per ora, però, il governo Meloni si muove con enormi cautele sul dossier cinese: tutti sanno che per “aumentare l’export delle imprese italiane in Cina”, come promesso, bisogna cercare di evitare di urtare la suscettibilità della Repubblica popolare cinese. Ovvero: cedere al ricatto. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.