(foto da Wikimedia Commons)

sul mare "rinserrato"

Le storie sepolte tra le dune del Baltico

Francesco M. Cataluccio

La penisola di Curlandia è una striscia di terra divisa a metà: da una parte è Lituania, dall’altra è Russia. Amata da scrittori e intellettuali, le guerre dell’Europa sono passate tutte anche da qui

Pubblichiamo in questa pagina un estratto adattato per il Foglio  del libro di Francesco M. Cataluccio “Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania”, appena uscito per Humboldt Books (144 pp., 16 euro)


   

Sono infine arrivato sul Baltico. Ma in realtà non proprio al mare. Davanti alla costa si intravede all’orizzonte una striscia di terra come fosse il Lido di Venezia. La penisola di Curlandia, per metà russa, è lunga novantotto chilometri e forma assieme alla costa una sorta di triangolo lagunare di acqua dolce e salata di 1.600 chilometri quadrati, e una profondità da cinquanta centimetri a due metri. In un attimo di surreale follia mi viene in mente che, stando così le cose, potrei camminarci dentro in punta di piedi, la testa all’indietro respirando a fior d’acqua. Però si può fare d’inverno, quando la laguna poco profonda ghiaccia e la superficie diventa come una pista di pattinaggio. A nord c’è una bocca che sfocia nel mare, un po’ spostata difronte al grande porto di Klaipėda (la tedesca Memel). Dieci minuti di sonnolento traghetto e si arriva dall’altra parte, nel punto più verde della penisola, regno di alci, cinghiali, volpi, lepri e grandi statue lignee in onore delle streghe.

 

Con una breve passeggiata attraverso la lingua di terra e arrivo dall’altra parte sulla spiaggia a perdita d’occhio che guarda il mare. E’ deserta e sta già tramontando un pallido sole. Mi torna in mente, per una bizzarra associazione d’idee, l’opera-performance non stop del Padiglione della Lituania (Leone d’Oro alla Biennale d’Arte di Venezia del 2019): Sun & Sea (Marina) ideata da Rugilė Barzdžiukaitė (regista cinematografica), Vaiva Grainytė (poetessa e scrittrice) e Lina Lapelytė (compositrice e performer). Il collettivo trasformò uno spazio ampio e buio, con un ballatoio ammezzato superiore, in una lingua di spiaggia assolata, gremita di turisti che cantavano, stesi sulla sabbia, in costume da bagno, fra asciugamani colorati, ombrelloni e potenti luci sbiancate. Una divertente critica del tempo libero e della contemporaneità, cantata dalle voci di un gruppo di venti artisti e venti comparse che impersonavano la gente comune. Con questa performance hanno fatto conoscere tutta l’originalità surreale e l’ironia dei giovani artisti lituani.

 

Proprio a metà della Penisola di Curlandia passo per il paesino di Juodkrantė (in tedesco Schwarzort, luogo nero) in una nuvola di odori intensi di pesce affumicato. Verso febbraio migliaia di furbi aironi cinerini e cormorani si piazzano là attorno per nidificare tra i pini. A maggio, quando dischiudono le uova, mi dicono ci sia un rumore assordante di schiamazzi infantili che pretendono immediatamente cibo. Un motivo in più di disappunto dei pescatori locali che vedono in quei pennuti dei pericolosissimi concorrenti nella pesca. Attraversando l’incontaminato parco nazionale, dominato dalle bianche betulle, raggiungo finalmente la celebre Nida (in tedesco Nidden), un tempo villaggio di pescatori con graziosi e variopinti villini in legno con decori simili a ricami e oggi celebre località turistica.

 

Il vantaggio di arrivarci con l’inizio dell’autunno è che non c’è più nessuno: i negozietti di paccottiglie e i locali sgarbati son tutti chiusi. D’estate è un inferno, anche se ben tenuto. Il porticciolo ora sembra abbandonato e le poche barche ormeggiate ondeggiano tutte assieme al ritmo di un forte e incessante vento. Il confine russo (dove un tempo iniziava la Prussia orientale) è appena a tre chilometri. Un po’ più avanti, all’estremo sud della laguna, c’è Kaliningrad che, quando ci abitava Immanuel Kant (che si guardò bene dallo spingersi fino da queste parti) si chiamava Königsberg. Fuori dall’abitato di Nida iniziano le dune di sabbia a perdita d’occhio.

 

Migliaia di anni fa le onde e i venti del Mar Baltico accumularono tutta quella sabbia spingendola su dai bassi fondali. L’abbattimento scriteriato degli alberi nel XVI secolo rese quelle dune sempre più alte e mobili. Spostandosi al ritmo di una ventina di metri all’anno inghiottirono quattordici villaggi. Mi arrampico su una delle montagne di sabbia più alte, la duna di Parnidis (circa cinquantadue metri), orlata da poveri e storti pini che hanno il destino segnato. E’ un paesaggio spettrale. Il vento rende difficile il cammino e la sabbia finissima entra dappertutto.

 

Scendendo per un altro sentiero mi imbatto in una strana statua in bronzo che rappresenta un infagottato e occhialuto signore nell’atto di camminare un po’ ricurvo e con le mani dietro la schiena. Un opportuno cartello spiega che, nel 1965, Chruscëv permise a Jean-Paul Sartre e a Simone de Beauvoir di trascorrere alcuni giorni da quelle parti. Il fotografo Antanas Sutkus li accompagnò e fotografò. La statua, opera di Klaudijus Pudymas (2018), riproduce una foto che fu pubblicata da tutti i giornali del mondo. I deserti di sabbia sono luoghi che favoriscono i miraggi e le allucinazioni. Nella notte sogno che i tetti delle case e i campanili delle chiese dei villaggi, che scomparvero sotto le dune alla fine dell’Ottocento, rispuntino fuori come funghi mentre sto passando, così come le intricate croci di ferro dei piccoli cimiteri. Procedo nel sogno saltellando goffamente come se fossi su carboni ardenti.

 

La terra, il mare e il cielo si confondono: a momenti si perde la cognizione di dove esattamente ci si trovi. Non mi viene in aiuto nemmeno la macchina fotografica: quella strana e intensa luce che sfoca tutto. Tento inutilmente di fotografare una donna bellissima che sta in piedi su una duna davanti al mare. In una poesia, Victor Hugo scrisse: “L’uomo si trova dove termina la terra / la donna dove comincia il cielo”. Non mi rimane che accontentarmi di queste incerte coordinate. Dopo vari giri a vuoto, mi imbatto finalmente nella casa di vacanze di Thomas Mann: leggermente elevata rispetto alla spiaggia, poggiata su quella che si chiamava Collina della suocera, con alle spalle un bosco di pini e abeti rossi. La villa gode di una vista magnifica e ha un’incredibile, anche se tormentata, storia. Nel 1929 lo scrittore, durante un’escursione, si innamorò della bellezza selvaggia di quel paesaggio di acqua, paludi, boschi e dune di sabbia. Scrisse nel suo diario: “Con mia moglie abbiamo deciso di costruire una villa a Nidden”.

 

La vittoria del premio Nobel, nello stesso anno, gli offrì una buona disponibilità economica e favorì il fatto che il governo lituano gli concesse un terreno per novantanove anni. L’architetto Herbert Reissmann progettò per lui una sorta di grande baita uguale a quelle dei pescatori locali: tetto di legno e paglia con rifiniture e infissi di legno colorati di un blu brillante, piuttosto lezioso. Dalla larga e panoramica veranda, quasi la plancia di una nave, si entrava nella luminosa sala da pranzo a pianterreno. Al piano di sopra ognuno dei sei figli aveva a disposizione una stanza, mentre Mann lavorava in uno studio raccolto con vista sulla linea dell’orizzonte e poteva godere “la vera concentrazione, il vero oblio di sé stesso, il giusto riscatto nell’universale della propria esistenza limitata che mi è concessa solo contemplando l’acqua”. Là scrisse la prima parte del grande romanzo biblico “Giuseppe e i suoi fratelli” (1933-1943), qualcuno ha ipotizzato che le sabbie del deserto descritte siano quelle locali.

 

Scrisse anche l’angosciante e profetico racconto “Mario e il mago” (1930), che è ambientato in un’altra località di villeggiatura: Forte dei Marmi. Mann però si godette solo per tre estati quella villa. La sua opposizione al nazismo gli consigliò di lasciare la Germania ed emigrare prima in Svizzera, poi negli Stati Uniti. Quando arrivarono i nazisti la villa era già stata abbandonata da anni. Fu occupata da Hermann Wilhelm Göring per le vacanze. Ma per i suoi impegni era troppo lontana da Berlino e chiese all’architetto di regime Albert Speer di progettare nelle vicinanze un piccolo aeroporto, spianando il bosco. Così finì per godersela Speer, con la scusa dei necessari, frequenti e inutili sopralluoghi. Durante la guerra fu gravemente danneggiata e spogliata di tutto (di originale oggi rimane soltanto la scala lignea blu che porta al primo piano). In quello stato di abbandono rimase per molti anni, nel disinteresse delle autorità locali.

 

Quando il primo agosto del 1949 Thomas Mann, accompagnato dalla moglie Katia, ricevette il Premio Goethe a Weimar (nella Germania comunista), dopo averne avuto uno simile la settimana prima a Francoforte, incontrò l’intellettuale comunista Antanas Venclova (1906-1971, padre del poeta Tomas e originario di Klaipėda), traduttore di Sofocle e presidente dell’Unione degli scrittori lituani, e gli raccontò della sua villa perduta. Tornato in patria, Antanas Venclova fece valere presso le autorità sovietiche il fatto che quella villa era appartenuta a un grande intellettuale antinazista. Così la residenza estiva di Thomas Mann venne a poco a poco risistemata e, dalla metà degli anni Novanta, è un bel museo pieno di fotografie e qualche documento (donati dalla figlia Elisabeth Mann Borgese), frequentato da tutti i feticisti della letteratura come me, pronti a qualsiasi scarpinata pur di visitare luoghi che odorano di falso lontano un miglio ma danno l’illusione di ritrovarsi in compagnia del loro amato scrittore.

 

Quando torno sulla terraferma e girello per la città portuale di Klaipėda (la tedesca Memel) ho la stessa impressione che ho sempre provato nell’amata Danzica (Danzig): l’impronta germanica è molto forte, non soltanto nell’architettura, ma nell’atmosfera generale. A momenti, per strada, mi stupisco di non sentir parlare tedesco. Del resto, nel periodo tra le due guerre, il novanta per cento degli abitanti erano tedeschi (mentre nella regione circostante il quaranta per cento erano tedeschi e il sessanta per cento per lo più dichiarava, anche per prudenza, di non saper bene a quale etnia appartenesse). Inizialmente, dopo il 1933, molti ebrei tedeschi si trasferirono a Klaipėda dove si potevano sentire ancora in Germania, ma senza i nazisti. Fino al 1923 la città fu sotto la giurisdizione francese; nel 1924 fu concessa, assieme alla regione circostante, ai lituani. Negli anni successivi tutto rimase diviso (e lo si percepisce ancora bene), in un pesante clima di diffidenza e conflitto latente tra tedeschi e lituani: le scuole, i luoghi di culto, gli ospedali (in quelli tedeschi non si riconoscevano le lauree conseguite in altri paesi e si parlava solo la loro lingua: così i lituani dovettero costruirsi il proprio). Ogni cambiamento di dominatore produsse in città drammi e lutti nella comunità sconfitta. 

 

Una storia della quale ancor oggi si parla poco volentieri mi è stata raccontata a voce bassa, in inglese, in un caffè del porto, da una giovane e sospettosa storica. La vicenda dei “Wolfskinder” (figli del lupo): le bambine e i bambini, nati tedeschi e rimasti orfani perché i genitori e i parenti erano morti o erano stati deportati. Nei mesi convulsi della ritirata tedesca, a cavallo tra il 1944 e il 1945, riuscirono in qualche modo ad attraversare il fiume Memel (l’odierno Niemunas), sfuggendo all’inferno di Königsberg, e si trovarono a vagare per il porto e la campagna lituana. Affamati e raggruppati come bande di gatti randagi, sopravvissero in una situazione come quella rappresentata nel film “Germania anno zero” (1948) di Roberto Rossellini. Alcuni furono ammazzati, altri sopravvissero in condizioni di semi-schiavitù, molti vennero in qualche modo adottati. Persero la loro identità, e solo da una ventina d’anni, ormai vecchi, timidamente cercano di rivendicarla.

 

Nel 2000 il giornalista Raffaele Oriani raccolse alcune significative testimonianze: “Mi chiamo Marianne, ma per quarant’anni sono stata Nijole; di cognome faccio Rovbutiene, ma in realtà sono Beutler, Marianne Beutler. Sono nata nel 1936 a Königsberg, nella Prussia orientale, ma per quarant’anni, come dire, sono nata nel 1937 a Šilutė in Lituania. Sono tedesca, ma ho passato gran parte della mia vita senza poter pronunciare una sola parola nella mia lingua madre; insomma, sono tedesca, ma quarant’anni sono stata lituana. (...) Ricordo la fuga dalla città con mia madre che aveva appena partorito: sembrava un cadavere, era pallida come la neve. La morte del primo fratellino: scavai io la fossa, come può scavarla una bambina di otto anni; la morte del secondo fratellino: l’abbiamo seppellito nella neve, perché nessuno aveva più la forza di scavare la terra. La scomparsa della mamma: i russi la caricarono su un treno; io mi misi a correre, ma da lontano vidi il treno partire. Improvvisamente sola sui binari, realizzai di non essere più in Germania: dappertutto cartelli in una lingua che non conoscevo e io che mi sarei messa a urlare per la fame”.

 

Come in tutta la Russia, nel Dopoguerra, anche in Lituania, essere tedeschi era un crimine vietato dal senso comune, punito in classe con le angherie dei compagni, nei luoghi di lavoro con l’esclusione dai posti di responsabilità, in famiglia con la condanna al silenzio. Marianne si guadagnò inizialmente il pane occupandosi degli ultimi nati delle famiglie lituane. Poi imparò la lingua, si procurò dei nuovi documenti e divenne “lituana”. Si sposò con un lituano ed è rimasta a vivere a Klaipėda.

 

[…] Finalmente mi trovo sulla costa difronte al mare aperto: il Mar Baltico, il “mare rinserrato”, come lo ha definito Tomas Venclova. E il suo amico Josif Brodskij, nel 1989, lo descrisse così: “Il Mar Baltico ha un paesaggio monocromatico, in esso dominano i toni del grigio e della foschia, ovvero semplicemente la luce del cielo che viene cantato fino all’oscurità”. Percorro su e giù la costa. Salto decisamente la località di villeggiatura di Palanga, piena zeppa di alberghi e locali al neon, che è anche il paradiso dell’ambra, con tanto di museo. Non mi è mai piaciuta l’ambra, che in lituano si chiama gintaras (sole che splende). Quando viene trasformata in gioiello la trovo volgare e un po’ roba da nonne. E poi mi ricorda le disgustose caramelle d’orzo. L’unica ambra che apprezzo è quella considerata ‘impura’: quando la goccia di resina fossile ha imprigionato per l’eternità un piccolo insetto o una foglia, perché mi ricorda gli esperimenti di biologia che facevo da ragazzino con l’agar-agar.

 

Vado una decina di chilometri a nord, ancora più vicino al confine con la Lettonia, nel piccolo paese di Šventoj dove è stato ricostruito un millenario luogo di culto pagano che fungeva anche da paleo-osservatorio astronomico per quegli arruffati abitanti che veneravano il Sole rintanati tra le alte dune, cibandosi di corvi (come i pescatori di Nida) e uova di gabbiano. Nelle vicinanze evito anche il museo della Guerra fredda che mostra i bunker e i quattro silos sotterranei dove i sovietici tenevano i missili R-12 armati con testate nucleari, pronti al lancio. Mi è difficile comprendere che attrazione possa essere oggi per i turisti, se non il brivido nell’immaginare che da lì, anche soltanto per un errore di valutazione delle immagini sui radar, poteva partire la distruzione del mondo. Non manco però di fermarmi a mangiare nei pressi, in una piccola bettola, con traballanti tavoli all’esterno causa pandemia, un altro tipo di “missili”: le lunghe e pesanti salsicce vedarai, budello di maiale ripieno solo di purè di patate, con un’esagerazione di burro.

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