Reportage

Tra i rifugiati in Moldavia. In ogni valigia c'è un calvario

Francesca d'Aloja

Gli ucraini arrivano con cani, gatti e disegni dei bambini. Splendono per il loro decoro. Chisinau li ha accolti come amici, più di ogni altro. E ora la presidente Maia Sandu invoca l’Europa

La consuetudine apparentemente contraddittoria secondo la quale più un paese è povero, maggiore è la sua disponibilità nei confronti di migranti e rifugiati, viene confermata dagli eventi in corso. Così come il Niger in Africa, la Moldavia (il paese più povero del nostro continente) sta dimostrando una capacità di accoglienza esemplare. Dal fatidico 24 febbraio a oggi, quasi sei milioni di ucraini sono fuggiti dal loro paese e secondo le ultime cifre dell’Oim (l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) si stima che oltre 8 milioni di persone siano sfollate in Ucraina, mentre 13 milioni sono bloccate nelle aree colpite o impossibilitate ad andarsene a causa dei rischi per la sicurezza, o più semplicemente per mancanza di mezzi. Chi è potuto fuggire ha cercato riparo nei paesi limitrofi: Polonia e Moldavia, in ragione dei loro confini, rappresentano le mete più facilmente raggiungibili (mai come in questi giorni l’ambigua definizione di confine evoca al tempo stesso pericolo e salvezza), chi risiede nella regione di Odessa o di Mykolaïv percorre pochi chilometri per giungere in Moldavia e sentirsi, almeno per ora e speriamo per sempre, al sicuro. E’ un modo per non allontanarsi troppo cullandosi nel conforto di un possibile ritorno, anche solo momentaneo, il tempo di tornare a prendere ciò che in fretta si è lasciato. 

 
Il criterio della selezione, la scelta fra gli oggetti indispensabili per vivere e quelli che la vita rappresentano: fotografie, ricordi, libri, disegni di bambini, simulacri di un’esistenza che si è stati costretti a sospendere. E’ questa la domanda, fra le altre, forse più urgenti, più congrue, che mi saltano in mente mentre parlo con le donne incontrate a Palanca, al confine con l’Ucraina, o a Chisinau: “Cosa hai messo in quella valigia?”.
Sono venuta in Moldavia al seguito di una missione dell’Unhcr (insieme al ministero degli Esteri e la fondazione Amplifon), la mia terza nel giro di pochi mesi (anche se sembrano trascorsi anni dalla prima, lo scorso dicembre in Serbia, sulle tracce della famigerata rotta balcanica – nel frattempo il mondo è cambiato). Questa volta siamo andati nei luoghi destinati all’accoglienza delle persone che negli ultimi due mesi e mezzo abbiamo visto sugli schermi dei nostri televisori, computer, tablet, arrancare nel freddo trascinando bagagli improvvisati, bambini e animali. File interminabili di automobili in fuga dalla più assurda delle guerre assurde. Il conflitto più mediatizzato al mondo (c’è assurdità anche in questo) ci viene descritto con milioni di immagini, miliardi di parole, competenti e incompetenti esprimono opinioni e lanciano sentenze e intanto le Irina, Svetlana, Tatjana, Olga che fuggono con i figli e gli anziani, rischiano di annullarsi l’una con l’altra divorate da una sovrabbondanza di informazione che la nostra limitata capacità di attenzione fatica a registrare. E’ un rischio che sto correndo anch’io scrivendo queste righe, ma ciò che ho raccolto, almeno nella mia memoria, resterà.


Mi resta ad esempio il contatto con Irina, la nostra interprete nata a Odessa e insegnante di lingue straniere all’università, che l’ironia del destino ha voluto andasse a trascorrere una breve vacanza fra i vigneti moldavi insieme al marito e alla figlia, in un periodo che da casuale si è rivelato decisivo. Quando il 23 febbraio il marito le propone di restare in Moldavia ancora un paio di giorni, il tempo di un altro giro di degustazioni (i vini moldavi sono eccezionali), Irina insiste per rientrare a casa, deve sbrigare delle faccende prima di riprendere il lavoro e preferisce partire. Tornati a Odessa, non fanno nemmeno in tempo a disfare le valigie: durante la notte delle esplosioni a poca distanza da casa confermano le minacce di un attacco che nessuno aveva preso sul serio, e in poche ore si ritrovano in macchina diretti di nuovo in Moldavia. Ancora una volta il tempismo si avvera determinante: soltanto un’ora dopo aver varcato il confine, Zelensky impone la legge marziale: per un soffio il marito di Irina non verrà giudicato disertore. 
A impressionarci, più che in tutte le altre guerre sul pianeta, è senza dubbio la vicinanza non solo geografica ma esistenziale direi, tranches de vie che potrebbero appartenere alle nostre biografie. Se ciascuno di noi ha notato con stupore la presenza di tanti cani e gatti fuggiti insieme ai loro padroni è perché quell’immagine apparentemente anomala non è altro che la rappresentazione plastica della classe media. Quelle persone in fila con i loro trasportini sono i nostri colleghi, i nostri vicini, i nostri amici. Siamo noi. A fuggire dalla guerra non sono più, o meglio non sono soltanto i diseredati della terra, ai quali rivolgiamo uno sguardo compassionevole o sprezzante a seconda dei casi ma pur sempre con la confortante consapevolezza di una distanza siderale fra noi e loro. 


“Non c’è nulla di strano, non credo che al posto loro abbandoneremmo i nostri animali sotto i bombardamenti”, mi dice Pierangelo Casale, presidente dell’associazione Veterinari Senza Frontiere, accorso a prestare assistenza dopo aver visto, anche lui, le immagini in televisione. Lo incontro a Palanca dove l’Unhcr gestisce un campo di transito con la collaborazione di diversi partner (Intersos, Oim, Unicef fra gli altri) nel quale si fornisce assistenza ai rifugiati ucraini che hanno oltrepassato il vicino confine. Dall’interno di un “Blue Dot” (gli spazi di ristoro, gioco e assistenza sanitaria per donne e bambini) Casale mi racconta la sua esperienza, finora senza precedenti: “Di solito ci occupiamo di comunità rurali vulnerabili, offriamo loro un sostegno per facilitare la crescita zootecnica, soprattutto nel sud del mondo. Non mi era mai capitato di assistere animali da compagnia in situazioni di conflitto bellico. Ma gli animali domestici fanno parte della famiglia, rappresentano un conforto, soprattutto per i bambini e gli anziani. Quel che vediamo mette in luce un sentimento comune di solidarietà e comunanza con gli animali, chissà che non sia la scintilla iniziale di una cultura europea sul serio messa in comune”. Su un ripiano del suo piccolo ambulatorio veterinario vedo disinfettanti, garze, medicinali. E tranquillanti. “Li diamo agli animali stressati dal viaggio, i gatti soprattutto, notoriamente stanziali. L’altro giorno è arrivata una gattina con le unghie ferite per il troppo grattare le pareti della sua gabbietta.” 


Devo interrompere la mia chiacchierata con Pierangelo, Carlotta Sami (portavoce Unhcr) mi avverte che dobbiamo andare al confine dove sono previsti nuovi arrivi. In pochi minuti siamo al border. Un cartello stradale indica i chilometri che ci separano da Odessa: sono solo cinquanta ma lontani come fossero cinquemila. La mitica Odessa, una città (ma anche un luogo mentale) che avrei sempre voluto visitare, si trova a due passi dai miei inesaudibili desideri. Però lo oltrepasso quel confine, e per un’ora scarsa posso dire di essere stata in Ucraina. Me lo conferma l’sms dell’operatore telefonico: “Benvenuto in Ucraina…”. L’afflusso di macchine in uscita è diminuito (da qui sono passate 450.000 persone dirette in Moldavia, in proporzione si tratta del paese in Europa che ha accolto il maggior numero di rifugiati), in compenso è aumentato quello in senso inverso. C’è gente che torna, le frontiere aperte hanno agevolato i rientri di chi se lo può permettere o di chi si assume il rischio di farlo, magari solo per pochi giorni. E’ pieno di cartelli in diverse lingue che mettono in guardia su eventuali pericoli: diffidare di chi offre domicilio gratuito, attenzione a chi promette passaggi in macchina. Le donne sole sono un bersaglio facile per chi vuole approfittare della loro vulnerabilità, il rischio di abuso e sfruttamento sessuale è un allarme preoccupante lanciato dalle agenzie umanitarie. Mi soffermo sui modelli di automobili: insieme a piccole utilitarie stipate all’inverosimile, sfilano automobili di marca. I conducenti sono professionisti di ceto medio, le facce sono quelle dei nostri vicini di casa. Un flusso eterogeneo composto da giovani e anziani, uomini e donne, vecchi e bambini, ricchi e poveri, etnia rom e signore eleganti. 


Una in particolare attira la mia attenzione. E’ una bella donna, sulla settantina, i capelli curati, una maglia a collo alto nera, gli occhiali da sole ricercati. Assomiglia a mia madre. Se ne sta in disparte stringendo da un lato la mano di una ragazza, molto bella anche lei, dall’altra una piccola sacca da viaggio grigia, di quelle da weekend.  Mi avvicino con discrezione insieme a Irina che gentilmente le chiede se posso farle delle domande. “Da dove venite?” “Odessa” “State tornando a casa?” “Sì…”. Lei poggia a terra la sacca e si accende una sigaretta sottile. Sento che c’è qualcosa di strano nell’aria, forse dovrei lasciarla stare, ma vedo che dopo una pausa si rivolge a Irina che prontamente traduce: “E’ una faccenda delicata…”. Non capisco a cosa si riferisca. Poi quello che dice mi taglia il fiato. “Vede questa valigia?”, sussurra indicando la borsa grigia. “Qui dentro c’è mia figlia”. Non replico e la guardo. L’atmosfera sembra quella sospesa di un sogno, in cui realtà e irrealtà si confondono. “In Ucraina gli aeroporti sono chiusi. Mia figlia è morta una settimana fa, viveva in Sudafrica… L’unico modo per riavere le sue ceneri era farle spedire in Moldavia, e lì sono andata a riprendermela. Ora la riporto a casa”. La sigaretta che stringe fra le dita si è consumata, il mozzicone potrebbe essere gettato a terra, il momento lo consente, ma lei guarda la ragazza, l’altra figlia, viva, accanto a lei, che subito sfila dalla tasca una scatoletta in guisa di portacenere improvvisato e gliela porge. Ecco cos’è il decoro, mi dico. Ecco la vita che continua con le sue regole e i suoi canoni, sempre validi, malgrado tutto. Non buttare la cicca per terra.


Torniamo al campo di Palanca. E’ ora di pranzo, sotto il tendone adibito a mensa si raggruppano in tanti, seduti uno accanto all’altro, approfittano della convivialità di un pasto caldo. Svetlana ha un viso luminoso incorniciato da lunghi capelli neri, tiene in braccio la figlia Olga di due anni e non smette mai di accarezzarle la testa. Accanto siede il figlio Ilya, quindicenne. Sono partiti da Mykolaïv dopo che il palazzo accanto al loro è stato bombardato. Stavano facendo colazione in cucina, si sono rifugiati in bagno. “Tremava tutto”. Per tre settimane hanno dormito nel corridoio, poi la decisione di andarsene. Svetlana ha abbracciato il marito ed è partita insieme ai figli: “Non so quando lo rivedrò, non so quando torneremo”. Le dico che quello che stanno facendo gli uomini come suo marito è un esempio per tutti noi. “I nostri militari sono forti, noi vinceremo”, replica fiera. Le rispondo che per quanto mi riguarda gli ucraini, tutti gli ucraini, hanno già vinto. Sono circondata da bambini, i soli che hanno la capacità di sorridere e giocare, e penso che anche loro, con lo spirito di adattamento che li contraddistingue, ci stanno dando un esempio. Poco lontano vedo un giovane padre seduto al tavolo insieme al figlio piccolo e mi viene spontaneo domandarmi come mai sia qui e non lì, insieme agli altri. Lo penso senza giudicarlo, ogni scelta è legittima, ogni conclusione irriguardosa. 


Torniamo a Chisinau attraversando un paesaggio incantevole illuminato dallo splendore della primavera. Chilometri di pascoli, vigneti e piccoli villaggi. E’ sorprendente questo paese come lo è la sua capitale. Sinceramente non me l’aspettavo così bella, curata. Il solo aspetto positivo di questa sporca guerra è lo svelamento di paesi e popoli che pochi di noi conoscono. In quanti possono dire di essere stati a Chisinau, o a Kyiv? L’Ucraina, oggi centro del mondo, non rientra nelle mete ideali, tantomeno la Moldavia. Per non parlare della Transnistria o della misteriosa Gagaùzia… A Chisinau ci sono otto teatri, le strade e i marciapiedi sono puliti, la manutenzione dei parchi pubblici farebbe invidia a un parigino (a un romano fa rabbia, per non dire altro), e non credo si tratti di cosmesi in previsione dell’imminente visita del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, atteso il 9 maggio, una data non casuale. “Il passato sovietico di questa città lo si riconosce dagli edifici e dagli spazi sproporzionati ma anche dall’ordine e dalla disciplina. Breznev, che governò la Moldavia per un breve periodo, aveva un debole per Chisinau…”, mi racconta l’ambasciatore Lorenzo Tomassoni, alludendo a una relazione del futuro capo dell’Unione sovietica con una donna moldava dalla quale ebbe un figlio. Un ordine e una capacità organizzativa che ritrovo anche al MoldExpo, la vasta area espositiva adibita a centro di accoglienza per i rifugiati ucraini. Ne esistono altri otto distribuiti in tutto il paese, questo è il più grande. I 500 alloggi disponibili oggi sono occupati da 360 rifugiati, ma durante i primi giorni dell’emergenza si è arrivati a ospitare più di 1.200 persone. Qui si usufruisce di un servizio molto efficace, il Cash Assistance Programme che prevede l’assegnazione nominale di una carta prepagata, utilizzabile unicamente sul territorio moldavo, grazie alla quale è possibile gestire autonomamente le proprie spese secondo i bisogni individuali. Sono inoltre garantiti diversi servizi che vanno dall’assistenza medica e psicologica alla distribuzione dei pasti, servizi igienici, lavanderie e piccoli uffici per l’assistenza legale. 


E’ qui che incontro Victoria, avvocata quarantenne fuggita da Odessa insieme alla famiglia. Non alloggia al MoldExpo, vive in un appartamento in affitto in città, ma considerata la sua professione ha trovato impiego nella struttura. “Non è stato semplice andar via… i primi bombardamenti hanno colpito un palazzo accanto alla mia abitazione, mi sono trasferita insieme a mio figlio a casa dei miei genitori che abitano vicino al mare, ma quando ho visto le navi schierarsi lungo la costa ho avuto paura, non eravamo più al sicuro…”. Si assomigliano tutti questi racconti di fughe improvvise e decisioni repentine e a ogni ascolto provo a pensare cosa avrei fatto al posto loro, quali sono le risorse cui attingere, come ci si sente quando si è obbligati a cambiare la propria vita nell’arco di una giornata. Lo chiedo anche a Victoria che mi sembra una donna forte ed equilibrata. “Il 24 febbraio ha spezzato in due la mia vita,” risponde, “esiste un prima e un dopo quella data, ma cerco tuttavia di mantenere viva la speranza di potermela riprendere, la mia vita precedente. Per questo ho deciso di fermarmi in Moldavia e non spostarmi oltre, qui siamo vicini e questa prossimità aiuta a non recidere i legami con il passato”. Recidere i legami, ecco un altro punto fondamentale. Le chiedo se pensa sia possibile in futuro ricostruire non solo le città distrutte ma anche il rapporto con i russi: “Io non voglio colpevolizzare un popolo per le azioni scellerate del suo governo, quel che mi sconvolge però è che molti russi, posso farti l’esempio di miei amici e parenti, credono ciecamente alla propaganda, persone a me molto care che passavano le vacanze a Odessa, che mi conoscono, e che nonostante questo mi hanno voltato le spalle…”. Vedo Irina, la nostra interprete, annuire. Anche lei ha un’esperienza simile, mi racconta di sua cugina che vive in Russia e che da un giorno all’altro ha interrotto ogni comunicazione: “Non mi ha neanche chiamata per sapere come stavo, per avere notizie. L’ho cercata, e quando mi ha risposto ho avuto l’impressione di parlare con un’estranea… L’ho messa al corrente di ciò che stava accadendo ma lei ha negato tutto, non sono riuscita a convincerla nemmeno con le foto che le ho mandato”. Mi chiedo a questo punto se si tratti dell’effetto di un lavaggio del cervello o se sia soltanto paura, o forse la subdola combinazione di entrambi. 


Faccio un giro per il centro d’accoglienza, incontro Oxana e i suoi quattro bambini arrivati due mesi fa. Sulle pareti della stanza i loro disegni attaccati con lo scotch: rappresentano tutti la stessa cosa, non c’è spazio per nient’altro nella loro fantasia: carri armati, bombe, soldati che imbracciano un fucile e tante, tantissime bandierine giallo-azzurre. 
Scendo nel cortile a fumare una sigaretta, c’è un bel sole, il cielo terso e pulito dai venti del nord. Intorno bambini che giocano intrattenuti da giovani volontari. Potrebbe sembrare la ricreazione di una qualsiasi scuola elementare. Mi guardo intorno e vedo una bimbetta accovacciata su un muretto. Se ne sta sola, in disparte, l’espressione imbronciata. Non riesco a staccarle gli occhi di dosso, è così bella e triste, mi chiedo cosa le stia passando per la mente. Mi avvicino, lei mi guarda. Vorrei dirle qualcosa, ma io non parlo la sua lingua e lei non capisce la mia, in fondo poco importa. Le accarezzo la testa, i lunghi capelli.
In questi sei giorni pieni di impegni riesco anche a infilarmi alla conferenza stampa tenuta dalla presidente della Moldavia Maia Sandu insieme al presidente del Consiglio europeo Charles Michel, giunto in visita ufficiale. Meno di un mese fa la presidente Sandu ha presentato domanda formale di adesione all’Unione europea malgrado il suo paese dipenda in larga misura dalla Russia, principale fornitore di risorse energetiche. Ha inoltre introdotto una legge che vieta l’esposizione del simbolo “Z”, tanto per ribadire da che parte sia schierata. Nella sala rotonda lastricata di marmi del moderno palazzo presidenziale, Maia Sandu ha escluso un rischio imminente di coinvolgimento della Moldavia nel conflitto. Ciononostante, Michel, con il suo marcato accento “à la Inspecteur Clouseau” ha dichiarato che l’Ue intende fornire aiuti militari alla Moldavia affinché sia garantita la stabilità della regione. Tutto molto interessante, anche se la sola cosa che registra la mia memoria è una frase della presidente moldava rivolta al popolo ucraino: “A friend in need is a friend indeed”.


“Quale sentimento prevale in te, rabbia o tristezza?”, chiedo a Tanja, un’esile ragazza che lavora nell’ufficio Unhcr di Chisinau (diretto da Francesca Bonelli, che ritrovo dopo Belgrado, ora trasferita d’urgenza qui). Tanja risponde in un inglese perfetto e senza accento: “Tristezza, senza dubbio, per tutto ciò che accade, ma quando a essere colpiti sono i luoghi legati alla tua vita, ai tuoi ricordi, la tristezza è ancora più profonda. Sapessi quante volte sono stata alla stazione di Kramatorsk, e quante a Kharkiv, una bellissima città che conosco così bene, o a Mariupol dove vive parte della mia famiglia…”. Nonostante i traumi recenti, Tanja ha la capacità di raccontare senza enfasi i giorni che hanno cambiato la sua vita, forse dipende dallo yoga che ha praticato per tanti anni, o forse perché non ha tempo per cedere alla disperazione, deve pensare alla sua bambina di otto mesi, al lavoro che le serve per mantenere la famiglia mentre il marito, che il lavoro lo ha perduto, si prende cura della piccola. (Fra i riccioli biondi noto delle ciocche sottili di capelli grigi, incongrue per la sua giovane età, ma non mi stupirei se fosse invecchiata all’improvviso…). “Mio marito si sente in colpa di non combattere insieme ai soldati, ma se partisse per il fronte io dovrei lasciare il mio lavoro e non possiamo permettercelo”. I genitori di Tanja sono rimasti a Odessa, così come il resto della famiglia a Mariupol, nonostante il pericolo. “Per loro è difficile lasciare la propria casa, non accettano l’idea di trasferirsi altrove. Per noi è più semplice anche se partire è stato durissimo, ma quando abbiamo sentito il discorso delirante di Putin, il giorno prima dell’attacco, abbiamo capito che il pericolo era imminente e siamo partiti il giorno dopo. Mia sorella e suo figlio si sono uniti a noi. Ho preso il cane e la bambina e ci siamo messi in macchina, ci abbiamo messo venti ore ad arrivare al confine”. E di nuovo penso alle case chiuse in fretta, alle valigie che più di tanto non possono contenere, al cibo nel frigorifero, alle piante da annaffiare, agli appuntamenti saltati, agli amici da lasciare, alle chiavi di casa improvvisamente inutili… “Prima di partire ho fatto sapere a persone di fiducia che ciò che avevamo lasciato a casa era a disposizione di chi ne aveva bisogno. A noi non serve più”.
“Hai lasciato le chiavi di casa?”.
“Sì, ma un mazzo l’ho portato via con me”.

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