Foto LaPresse / Emilio Morenatti 

Odessa città magica tra occidente e oriente. Oggi sotto le bombe

Francesco M. Cataluccio

Metropoli di importanza capitale per i commerci, gli scambi, i passaggi delle genti. È letteratura pura, eleganza oggi decaduta e quindi malinconicamente ancora più bella

Un grande porto (voluto, agli inizi dell’Ottocento dal generale di origine spagnola José de Ribas/Osip Deribas) brulicante di navi e merci; una bella scalinata (costruita nel 1841 dall’architetto italiano Franz Boffo) talmente scenografica da sembrare fatta apposta per girarci un film come La corazzata Potëmkin, con la famosa e inquietante carrozzina che scende giù; le centinaia di maestose acacie, importate da Vienna nei primi dell’Ottocento, che ornano i grandi boulevard. Questi tre aspetti erano e, nonostante tutto sono, le  caratteristiche più evidenti di Odessa. La “perla del Mar Nero” è, come la vicina Istanbul, un ponte verso l’Oriente. Appoggiata col suo porto su un mare che è chiuso come un grande lago, tranquillo ma che si agita improvvisamente facendo perdere facilmente la Trebisonda. Odessa ha alle spalle le immense distese di grano dell’Ucraina e oltre, più a est, le distese dell’Asia. Città di importanza capitale per i commerci, gli scambi, i passaggi delle genti. Odessa è letteratura pura, eleganza oggi decaduta, e quindi malinconicamente ancora più bella, famosa nel passato per i suoi ladri: nel 1918 si calcolò che ci fossero 40.000 tra ladri, malviventi, lestofanti, truffatori, lenoni e perdigiorno di ogni genere.

 
La città è dominata dall’imponente Monastero di Panteleymon, con le sue solenni cupole bizantine argentate, le mura color ocra decorate da icone sacre (durante l’epoca sovietica era stato trasformato in un Planetario per vedere le stelle). Come ricorda l’ucrainista Massimiliano Di Pasquale (Ucraina terra di confine, il Sirente 2012) la città si sviluppò agli inizi dell’Ottocento grazie a Armand-Emmanuel duca di Richelieu, pronipote del cardinale francese, nominato dallo zar Alessandro I governatore della città nel 1803: “Offrendo terreni a poco prezzo, garantendo tolleranza religiosa ed esenzione dal servizio militare, riuscì ad attrarre nel neonato centro marittimo una nutrita comunità di espatriati provenienti da tutta Europa: bulgari, serbi, moldavi, greci, armeni, ebrei, tedeschi e svizzeri che contribuirono al primo boom economico e commerciale”. La modernizzazione della città continuò con il figlio dell’ex ambasciatore a Londra dello zar, Mikhail Vorontsov, governatore che ospitò il grande poeta romantico russo Aleksandr Puškin, che a Odessa scrisse il suo capolavoro, Evgenij Onegin (1823-1831), spassandosela con cene a ostriche nel famoso ristorante francese “Cesar Otton” in compagnia di belle signore, compresa la moglie del governatore (che li scoprì e l’allontanò dalla città).


Per tutta la Russia, Odessa è città leggendaria e, si badi, merita leggende quanto Marsiglia, Napoli e Leopoli. La città era popolata da russi e greci, ebrei e tedeschi, la circondavano in ordine sparso le masserie ucraine. Nel porto, piroscafi di lungo corso da ogni parte del mondo, ormeggiati accanto alle nere feluche dei contrabbandieri. (…) I frizzi di Odessa circolarono e circolano da Murmansk a Vladivostòk, l’arguzia e l’accento odessiti sono tipici elementi di un particolare stile di mugugno. Il teatro di Odessa continua a essere portato alle stelle per i magnifici rivestimenti di velluto color lampone e per la celebrità degli artisti che vi si produssero. Odessa ha dato alla moderna letteratura russa più scrittori autentici di qualsiasi altra città”, cosi scriveva il critico polacco Jerzy Pomianowski introducendo la sua monografia (Il castoro, n. 81, 1973) sullo scrittore Isaak Babel’, che seppe cantare come pochi altri quella città famosa per avere avuto i migliori ladri e contrabbandieri del mondo (almeno nel senso comune ebraico e russo). I suoi celebri quattro Racconti di Odessa (1924) sono il precipitato di tutta la sua produzione che, anche quando parla della guerra civile (L’armata a cavallo), sembra descrivere le zuffe tra guardie e ladri tra le strette viuzze del quartiere della Moldavanka, in mezzo alle bettole dove si vendeva a fiumi il vino a poco prezzo della Bezzarabia. 


Isaak Babel’, al seguito dell’Armata a cavallo nella guerra russo-polacca del 1920, ebbe modo, andando su e giù per l’Ucraina, di scoprire, lui ebreo non ricco della ricca Odessa, il mondo un po’ misterioso delle comunità hassidiche. A Žitomir capitò nella poetica bottega di cianfrusaglie antiche di un vecchio che si chiamava Gedali: “Si aggira in mezzo ai suoi tesori nella rosea vacuità della sera, piccolo bottegaio con gli occhiali affumicati e una palandrana verde lunga fino ai piedi. Si stropiccia le manine bianche, si stuzzica la barbetta grigia e intanto, chinando il capo, presta ascolto a invisibili voci che gli giungono al volo”. Quel commerciante gli pose la domanda, sulla possibilità o meno di conciliare Rivoluzione ed Ebraismo, che accompagnerà Babel’ per tutta la vita (e come lui, allora, molti scrittori russi di origini ebraiche): “Alla rivoluzione diremo di sì, ma dobbiamo forse dire di no al sabato?”. Gedali portò poi Babel’ dal Rabbi Motale, ultimo Rabbi allora della dinastia di Chernobyl: “Motale sedeva a tavola circondato da ossessi e impostori. Portava in capo un berretto di zibellino e una bianca veste da camera stretta da una cordicella, e frugava con le magre dita la gialla peluria della barba e mi disse: ‘Lo sciacallo urla quando ha fame, a ogni sciocco basta la propria stoltezza per abbandonarsi allo scoraggiamento, e soltanto il saggio sa lacerare con il riso il velo dell’esistenza…’”. 


Istintivamente vicino al popolo, e profondamente legato alla cultura dei suoi avi, Babel’ trovò nella rivoluzione bolscevica una sintesi identitaria e la certezza di una seconda appartenenza altrettanto solida quanto la prima, quella ebraica. Il personaggio principale del ciclo di racconti L’armata a cavallo è in realtà lo sradicamento e la nostalgia ebraica, che hanno visto aprirsi la speranza di obliarsi in una grande causa comune. Che questa speranza fosse irrealizzabile, che la causa comune “condita dal sangue migliore” si sarebbe rivelata un enorme pantano di sangue, Babel’ non lo sapeva ed è assurdo rinfacciarglielo. Però Babel’, con i suoi racconti, contribuì alla falsa leggenda che fece del giovane arrogante, sanguinario e incapace cosacco Semën Budënny (1883-1973) un eroe. Ma il generale dell’Armata a cavallo non si accontentò che Babel’ avesse messo la sordina ai suoi massacri, e lo attaccò, nel 1924, per aver scritto “chiacchiere da donnetta” e “irresponsabili fandonie”, e nel 1928, sulle colonne della Pravda, accusandolo di non essere un autore marxista “seppure immaturo” e di aver prodotto con L’armata a cavallo “una sconcia caricatura intrisa del più puro spirito piccolo borghese”. Il 15 maggio del 1939 Babel’ venne arrestato dall’Nkvd a Peredelkino con l’accusa di deviazionismo trozkista e gli vennero sequestrati tutti i manoscritti. Il 17 marzo del 1941 si ritiene (in base a un comunicato ufficiale del 1956) che venne fucilato in un campo di prigionia stalinista.


La vicenda umana e intellettuale di Babel’ può solo in parte rappresentare quella degli ebrei di Odessa. Una comunità varia e vivacissima come quella rappresentata nel romanzo I cinque (1936; Voland 2018) del giornalista e leader sionista Vladimir Jabotinskij: la famiglia Milgrom, ebrei agiati e integrati che respirano la cultura russa e prosperano in una città che considerano la loro patria. Aderiscono alla loro eredità religiosa con una certa leggerezza e pensano di non avere nulla in comune con gli ebrei degli shtetl che sciamano in città durante la stagione del raccolto.  Questo mondo venne  cancellato a opera dei fascisti rumeni e dei nazisti, durante la Seconda guerra mondiale. Oltre 22.000 corpi vennero ritrovati nelle fosse comuni dopo la fine della guerra. Complessivamente, le vittime del massacro sono stimate tra le 25.000 e le 34.000 persone. Quella parte della popolazione urbana che in passato non aveva esitato a smascherare i “traditori di classe”, a denunciare gli avversari del socialismo e a estirpare i nemici del popolo, si riciclò facilmente nella nuova pratica di scovare, per denaro o semplice odio razziale, gli ebrei nascosti. Nel novembre del 1944 gli ufficiali sovietici censirono solo 48 ebrei. Il memoriale dell’Olocausto di Odessa, racconta lo storico americano Charles King, nel fondamentale volume Odessa. Splendore e tragedia di una città da sogno (Einaudi, 2013), si trova in una strada affollata del centro. Un viale alberato conduce a una fontana centrale. In cima c’è una piccola scultura  con un ammasso di uomini e donne nudi  che si affollano davanti a una piccola valigia, circondati da un groviglio di filo spinato. Un’iscrizione ricorda i crimini commessi di nazisti (e non dai rumeni, divenuti nel dopoguerra “paese fratello” e quindi trascurati, né tantomeno dai complici locali).


In questo momento in cui Odessa, tornata nel 1991 libera e prospera nella libera Ucraina, è sotto le bombe e la gente fugge davanti alle truppe russe, come accade nelle altre città del paese, va ricordato il drammatico racconto autobiografico del giallista italo-ucraino Giorgio Scerbanenco (Io, Vladimir Scerbanenko, 1966), che, nel 1921, fuggì dalla città con la madre alla volta dell’Italia. Non vi sarebbe più tornato. Il padre, professore di latino e greco, che avrebbe dovuto raggiungerli successivamente, venne fucilato dai bolscevichi a Kiev: “Adesso tornavamo in Italia: a Odessa vi erano tre navi venute dall’Italia a prendere gli italiani che fuggivano alla rivoluzione, per riportarli in patria. E la rivoluzione era tutto intorno a Odessa. La città era dei bianchi o dei rossi, ero troppo piccolo per interessarmene, però era dei militari e della guerra, lo si capiva subito, anche un bambino come me”.

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