Profughi ucraini in fuga. Stazione di Medyka, Polonia (LaPresse)

Gli ucraini e gli altri

Ora tanta solidarietà. E poi? Senza terra e senza futuro saranno profughi per sempre

Stefano Cingolani

Lo scorso anno i fuggitivi di tutto il mondo sono stati quasi cento milioni. Ora si aggiungono i disperati dall’Ucraina. Ma l’Europa di popoli sradicati ne ha visti tanti. Un catalogo da brividi

Cento milioni. Hanno varcato quella quota simbolica e quando questo articolo verrà pubblicato saranno ancora di più: quante lacrime si celano dietro la statistica, quanti dolori, lacerazioni, ferite nel corpo e nell’animo. Secondo l’Unhcr, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, lo scorso anno i fuggitivi in tutto il mondo avevano raggiunto la cifra impressionante di 97 milioni 283 mila poi è scoppiata la guerra al centro dell’Europa ed è cominciato l’esodo più rapido dal secondo conflitto mondiale. Tante sono le persone costrette ad abbandonare le loro case, le loro terre, i loro paesi, uomini in cerca di futuro, famiglie intere in attesa di pace, donne sole, con i loro bambini, senza gli uomini rimasti a combattere per la libertà come in Ucraina. È tornato indietro di un secolo il Vecchio Continente lacerato dalla storia, che ha visto i propri figli massacrarsi tra loro, sterminare popoli e religioni, sopprimere nazioni ed etnie, più che in altri luoghi di questo pianeta superbo dove anche l’ultimo essere si sente immagine divina, ma non per questo rinuncia a distruggere i propri simili. Masse umane sradicate, sbandate, rigettate, rifiutate, che vagano di confine in confine, eravamo abituati a vederle arrivare con i barconi dal Nord Africa, a piedi o con mezzi di fortuna dal Medio e dal lontano Oriente, dalla Siria, dall’Afghanistan. I sei milioni di siriani sradicati, i profughi afghani rifiutati da tutti e lasciati nella terra di mezzo al confine con l’Iran o con la Bielorussia, o ancora gli eritrei e i sudanesi cacciati dalle guerre civili, i venezuelani sfuggiti al nazional-populismo latino. Adesso a tutti gli altri s’aggiungono gli ucraini.

 

Dal 24 febbraio, quando è partita l’invasione russa, oltre due milioni di ucraini hanno lasciato tutto, ma l’Onu stima che questa cifra raddoppierà presto. La maggior parte attraversa il confine della Polonia (ormai quasi  un milione e mezzo), seguono Romania, Ungheria, Slovacchia, Moldavia, vanno a ovest, pochi si dirigono ad est verso la Russia (meno di centomila). L’Europa occidentale finora non è stata investita dall’onda. In Italia sono arrivati per il momento in 30 mila o poco più. Ogni giorno li vediamo soffrire attraverso gli schermi televisivi, nelle foto dei giornali, sui display dei telefonini. Ma non sappiamo cosa passa davvero nei loro cuori. Guardiamo splendidi episodi di solidarietà, gente che apre la propria casa, una corsa agli aiuti in denaro, in viveri, in beni necessari. La chiesa di Santa Sofia a Roma è diventata un’icona di compassione attiva, il suo cortile è persino troppo pieno di scatoloni. 
 

Da che cosa scappano gli ucraini? Dai russi? Anche, certo dalla guerra, dalla morte, dalla povertà, ma anche da un mondo senza libertà. Torneranno? Pochi, tutti gli altri saranno per lo più profughi per sempre, prima rifugiati poi immigrati, infine, magari, integrati dopo una generazione. O forse no, forse passeranno la loro vita nei ghetti, imparando a battersi per strada come Vladìmir Putin che se ne è fatto vanto e ha capito fin da ragazzo ad aggredire per primo perché, come ha detto il piccolo zar con l’aria di distillare un’antica verità appresa magari dalle massime del generale Bagration, che “la miglior difesa è l’attacco”. 

L’Unhcr ha evocato la Seconda guerra mondiale. Molto (anche se mai abbastanza) si è detto, scritto, filmato sulle deportazioni e le stragi hitleriane. Meno è stata trattata la vera e propria pulizia etnica avvenuta a opera di Stalin dalla Germania all’Ucraina, dal Baltico al Mar Nero. Per trovare un esodo tanto drammatico dentro i confini d’Europa quanto quello al quale stiamo assistendo oggi, bisogna davvero tornare indietro nel tempo, sfogliare libri, annuari, almanacchi perché le generazioni oggi viventi non sanno. I più giovani non hanno visto l’arrivo della nave Vlora stipata di 27 mila albanesi nel porto di Brindisi il 7 marzo 1991. Forse qualche appassionato di cinema avrà assistito alla proiezione de “Lamerica” di Gianni Amelio uscito nel 1994. Solo chi s’avvicina ai cinquant’anni ha negli occhi la tragedia della Bosnia, l’assedio di Sarajevo, il massacro di Srebrenica o la corsa per la vita mentre piovevano le bombe in Kosovo. I più anziani sono stati testimoni, per lo più mediatici, della migrazione di popoli subito dopo l’estinzione del comunismo non per colpa dei malvagi capitalisti, ma per propria esangue miseria. Davvero in pochi possono ormai raccontare quel che è accaduto nel 1945. Tra gli storici che hanno avuto la pazienza di scartabellare polverosi archivi c’è Tony Judt: in un formidabile capitolo del suo “Dopoguerra”, ci ha raccontato come l’Europa è stata ridisegnata per la terza volta in un secolo con il ferro e con il fuoco. Prima la spartizione del 1918 alla fine della Grande Guerra. Poi sono arrivati Adolf Hitler e  Stalin. E poi di nuovo Stalin con Churchill, Roosevelt e poi Harry Truman. Adesso abbiamo l’erede di Stalin che prima rosicchia i confini meridionali, sul Caucaso e lungo il Mar Nero, poi riconquista le steppe un tempo lasciate ai cosacchi e popolate dagli Ucraini. 

 

I due grandi dittatori del Novecento “hanno sradicato, trapiantato, espulso, deportato e disperso qualcosa come 30 milioni di persone”, ha scritto Judt. La “riconquista” tedesca dei Sudeti e la ennesima spartizione della Polonia (tre nel secolo XVIII, altre due nel secolo XIX, ancora tre nel secolo XX nonostante la Polonia fosse stata dichiara indipendente dopo 123 anni) avevano spinto verso est i tedeschi e schiacciato, anzi spesso sterminato le altre popolazioni. Con la ritirata delle truppe dell’Asse il processo si è rovesciato. I colonizzatori germanici sono stati trasformati a loro volta in profughi. La divisione degli imperi dopo il 1918, per quanto complicata e talvolta astratta nel tracciare i confini (si pensi proprio all’Ucraina), aveva mantenuto un mix tra nazionalità, lingue, religioni all’interno dei singoli paesi. Poi arrivano Hitler, Stalin e gli alleati. 

 

La differenza tra l’esito della Prima e della Seconda guerra mondiale è impressionante. Nel 1918 ci furono divisioni artificiose di paesi e altrettanto artificiose composizioni (per esempio la Jugoslavia), tuttavia la gente venne lasciata sostanzialmente dov’era con poche eccezioni (greci e turchi nel 1923). Dopo il 1945 accadde l’opposto: furono ripristinati i confini tracciati dai trattati di Versailles, ma vennero deportate milioni di persone. L’unico paese a perdere territorio fu la Polonia, per mano  dell’Unione sovietica che prese una fetta orientale in parte compensata con una espansione a occidente a scapito della Germania sconfitta e costretta ad accettare il nuovo limite lungo i fiumi Oder e Neisse. La questione venne risollevata dopo il 1989, con la riunificazione dell’ovest e dell’est, ma il cancelliere Helmut Kohl tagliò corto e riconobbe la frontiera del 1945. Cambiò certamente il limes italiano a oriente, perché l’Istria e la Dalmazia vennero assegnate alla Jugoslavia.
 

Ma anche in questo caso furono i popoli a subire i maggiori effetti. Il risultato è la nascita di una Europa di stati nazione  fondati etnicamente, come mai in passato. La Polonia, la cui popolazione nel 1938 era per il 68 per cento composta di polacchi, è divenuta omogenea dopo l’espulsione di tedeschi, ucraini, austriaci e soprattutto degli ebrei scampati all’olocausto. La Cecoslovacchia, che prima della guerra era popolata per il 22 per cento da tedeschi seguiti da ungheresi, ucraini dei Carpazi ed ebrei, divenne abitata quasi al 100 per cento da cechi e slovacchi. Persino la Jugoslavia formalmente multinazionale, cacciati gli italiani, divenne un puzzle di slavi del sud con tre diverse religioni: cattolica, ortodossa e musulmana. E, come sappiamo, dopo la morte di Josip Broz Tito la sua costruzione cominciò a sgretolarsi per poi dissolversi nel sangue. 

 

Le migrazioni forzate vennero organizzate scientemente nell’Europa occupata dall’Armata Rossa. La Bulgaria rimandò 160 mila turchi in una patria dove molti di loro non avevano mai vissuto prima, ben 120 mila slovacchi in Ungheria vennero scambiati con altrettanti ungheresi installati a nord del Danubio. Le autorità sovietiche organizzarono una sorta di compravendita umana anche tra Polonia e Ucraina: un milione di polacchi cacciati  dalle loro case nell’Ucraina occidentale e mezzo milione di ucraini importati in Unione sovietica mentre i russi venivano “incentivati” a insediarsi nelle città e nelle campagne ucraine. Non furono accidenti della storia, ma le conseguenze di una precisa strategia annunciata da Stalin con enfasi fin dal settembre 1941, quando promise di “riportare la Prussia orientale nella casa degli slavi alla quale appartiene”. La radice profonda di quel che sta accadendo oggi è proprio qui: l’Europa lacerata e riplasmata con terra e sangue si confronta di nuovo al confine tra occidente e oriente, in quel luogo di frontiera, u krajina, cioè la terra in lingua nazionale, terra di mezzo, una marca. L’Urss è implosa, lo stato sovietico è rimasto in piedi con poche vere trasformazioni, a sua volta erede dello stato zarista.

 

“Il sistema statale russo, nato in Asia, ma abbigliato all’europea, non è storico, ma metastorico”, secondo Vasilij Grossman il grande scrittore ucraino che raccontò la vittoria di Stalingrado su Stella Rossa, il giornale dell’armata, ma non piacque a Stalin. Tornano anche le categorie mentali, le ossessioni, i pregiudizi, le culture politiche si pensi al nazionalismo slavofilo sposato insieme all’ortodossia religiosa moscovita come instrumentum regni già da Stalin e ora da Putin. Con tutte le rotture avvenute, c’è un filo rosso-bruno, rosso come il sangue e bruno come la terra, che collega secoli di storia. Il fiume del nazionalismo etnico, a lungo sommerso, scorre in superficie e corrode la globalizzazione che, più tempo passa più assomiglia al sogno kantiano della pace universale cosmopolita.

 

Questo processo che punta a far coincidere stato, nazione, etnia dominante, non ha risparmiato la stessa Germania. Nel 1945 dall’Ungheria vennero espulsi 623 mila tedeschi, dalla Romania 786 mila, mezzo milione dalla Jugoslavia e un milione 300 mila dalla Polonia. Il 19 maggio il presidente cecoslovacco Edouard Benes decretò: “Abbiamo deciso di eliminare il problema tedesco nella nostra Repubblica una volta per sempre”. Oltre tre milioni di tedeschi per lo più abitanti nei Sudeti furono cacciati nei successivi 18 mesi; 267 mila morirono durante l’esodo. Nel 1930 la popolazione della Boemia e della Moravia era composta per il 29 per cento di tedeschi; il censimento del 1950 mostrò che erano ormai scesi all’1,8 per cento. La tragedia dei profughi continuò con fughe in massa dalla Prussia verso la Baviera, dall’est comunista verso l’occidente federale, mentre cominciava quello stillicidio finito con la caduta del muro di Berlino. La migrazione tra le macerie in quel Jahr Null, anno zero (molto efficace resta ancor oggi il film di Roberto Rossellini nel 1947) riaprì conflitti mai sopiti in un paese che, al contrario di quel che molti pensano, non è affatto omogeneo e resta diviso dalla storia, dalla religione, dalla cultura, dalle condizioni economiche.

 

I bavaresi non furono affatto disposti ad accogliere i prussiani che finirono negli alloggi di fortuna costruiti dagli alleati e gestiti dall’Onu con l’Unrra diventata poi Unhcr. L’ultimo campo profughi a Föhrenwald, in Baviera, è stato chiuso nel 1957. Costruito per gli operai della ditta di munizioni IG Farben, poi diventato alloggio per i lavoratori schiavi dei nazisti, aveva ospitato ebrei, jugoslavi, ungheresi, baltici, prima fatti prigionieri dalle SS e scampati allo sterminio, poi fuggiti per non cadere sotto il tallone comunista e lo stivale russo dai paesi baltici, dalla Polonia, dalla Romania, dall’Ungheria, dalla Ucraina, dalla Crimea tatara. Una nuova onda umana scampata agli antichi tiranni e in fuga dai nuovi. 

 

Il New York Times in un reportage descrisse una colonna di 24 mila cosacchi, soldati e anche famiglie in marcia nella parte meridionale dell’Austria “nient’affatto diversi in ogni dettaglio da quel che un artista aveva dipinto nelle guerre napoleoniche”. Un racconto che mostra la sorpresa di un esponente del nuovo mondo di fronte alle diversità antiche, talvolta arcaiche che segnano ancor oggi l’Europa. Potrebbero essere la sua ricchezza se gli europei tutti, politici, intellettuali, operai, contadini avessero il coraggio civile di riconoscerlo. Invece…

 

Un destino particolare è toccato di nuovo agli ebrei. Nel 1945 il presidente americano Truman annunciò che sarebbero stati costruiti dei campi solo per loro perché “il rifiuto di riconoscerli come tali – dichiarò – ha avuto l’effetto di chiudere gli occhi  di fronte alla barbarica persecuzione”. La maggior parte dei sopravvissuti ai campi sterminio cominciarono la loro marcia verso la Palestina per edificare lo stato d’Israele. Il nuovo esodo. Exodus era il nome dato alla nave che nel 1947 doveva portare segretamente gli ebrei che partivano illegalmente dall’Europa. Vagarono come la nave dei folli per l’Atlantico e il Mediterraneo, tra Cipro, la Francia e Amburgo dove vennero accolti con le armi e internati in campi di concentramento. Gli ebrei provenienti soprattutto dall’Europa centro-orientale non avevano alcuna intenzione di finire sotto il dominio sovietico né di restare là dove si era consumato l’Olocausto. Da La Spezia conosciuta come “Schàar Zion”, Porta di Sion partirono alcune navi dirette verso la terra promessa. Ma gli ebrei dovettero combattere a lungo per riconquistare il loro posto nel mondo con una guerra d’indipendenza contro gli arabi e contro i loro protettori inglesi che durò fino al 1949. Non più profughi per sempre. 

 

Anche gli italiani dell’Istria e della Dalmazia sono tornati in patria sia pur con lutti e drammi. Trieste conosce bene cosa vuol dire esodo. Attraverso i valichi friulani stanno passando migliaia di ucraini in fuga (finora circa 12 mila); la maggior parte entra in Italia a Tarvisio un terzo a Fernetti, il 2 per cento s’è fermato a Trieste dove ancora viva, rinnovata di generazione in generazione, la memoria del secondo dopoguerra. Prima c’era stata la germanizzazione e la slavizzazione decretata dall’imperatore Francesco Giuseppe nel 1866 “contro l’influenza degli elementi italiani”. Da allora fino al 1918 arrivarono le espulsioni in massa fino alla deportazione in campi di concentramento. L’Italia, vincitrice nella Prima guerra mondiale, si vendicò a sua volta. Il Trattato di Rapallo del 1920 assegnò all’Italia quella che sarà chiamata Venezia Giulia, Zara, parte della Dalmazia e Fiume nel 1924 dopo il fallimento della effimera rivoluzione/occupazione dannunziana. Finché nel 1941 l’esercito mussoliniano non invase la Jugoslavia. Nel 1944 Zara venne conquistata dai partigiani di Tito e cominciarono le prime stragi: i cadaveri venivano gettati in mare o nascosti nelle foibe. La fuga dalla Dalmazia e dall’Istria era già cominciata, ma a partire dal maggio 1945 divenne un esodo di massa durato molti anni: da allora fino al 1954 se ne andarono ufficialmente 35 mila italiani. Nel 1946 Pola, assegnata alla Jugoslavia, visse momenti drammatici, venne istituito il Comitato per l’esodo e quasi 30 mila persone aderirono. Il 10 febbraio del 1947 venne firmato il Trattato di Parigi secondo il quale chi era domiciliato dal 1940 e decideva di restare perdeva automaticamente la cittadinanza italiana, Maria Pasquinelli, fascista repubblichina, uccise per vendetta governatore militare, il generale britannico Robert de Winton.

 

La caduta dell’Unione sovietica nel 1991 doveva aprire una nuova era di pace e benessere in Europa. Invece sono stati trent’anni di conflitti formalmente locali, ma di fatto inquadrati in un confronto prima strisciante e indiretto, poi sempre più esplicito, con una Russia divorata da un sordo desiderio di rivincita e perseguitata da una sindrome dell’accerchiamento giunta con Putin all’isteria. Jugoslavia, Nagorno-Karabakh, Ossezia, Transnistria, Cecenia, Georgia, Ucraina. Un piccolo riassunto fa venire i brividi. 

 

Per primi esplodono i Balcani. L’indipendenza della Slovenia e della Croazia innesca una guerra con i serbi che dura quattro anni e provoca 20 mila morti. Poi il conflitto si sposta nella Bosnia proclamatasi indipendente nel 1992, centomila morti, due terzi dei quali bosniaci, un numero di profughi difficile ancor oggi da calcolare. Nel 1998 s’aggiunge il Kosovo, una provincia serba popolata da una maggioranza di albanesi musulmani. Per mettere fine al conflitto, la Nato lancia, nel marzo 1999, dei raid aerei che portano, il 10 giugno, al ritiro delle forze serbe. Circa 13 mila morti, in gran parte albanesi. Sempre nel fatidico 1991  quando si consuma “la più grave tragedia geopolitica del 900”, parole di Putin, una guerra esplode nel Nagorno-Karabakh, territorio azero abitato da una maggioranza armena. La guerra provoca 30 mila morti e si conclude con una repubblica autoproclamata sotto controllo armeno che non porta la pace: un nuovo scontro armato scoppia nell’autunno 2020, provocando 6.500 vittime. L’Armenia viene costretta a cedere all’Azerbaigian tre regioni che formano una sorta di sbarramento. Nel Caucaso, l’Ossezia settentrionale sostenuta da Mosca è teatro, alla fine del 1992, di una sanguinosa guerra con l’Inguscezia. La Cecenia, repubblica russa a maggioranza musulmana, è stata spianata a due riprese dall’esercito russo contro gli indipendentisti e gli islamisti. Decine di migliaia di morti e Putin emerge come l’uomo forte nel 1999 conquistando e radendo al suolo la capitale Grozny. Confinante con l’Ucraina, la Transnistria, regione russofona moldava, si separa nel 1990. Due anni dopo esplodono violenze fra forze moldave e milizie slave di Transnistria. Intervengono tremila soldati russi, centinaia di morti, ma la Transnistria non è riconosciuta dalla comunità internazionale e la Russia non fa eccezione. Infine l’Ucraina. Nel 2014, dopo le manifestazioni di piazza Maidan e la fuga in Russia del presidente Viktor Yanucovych, la Federazione russa annette la penisola di Crimea e sostiene i ribelli separatisti filorussi nel Donbas, l’est del paese. Vengono autoproclamate le repubbliche di Donetsk e Lugansk. Il conflitto, che ha provocato oltre 14 mila morti da quando è iniziato, era diminuito di intensità nel 2015 con la firma degli accordi di Minsk. Ma Mosca, sostenuta da vaste manovre militari intorno all’Ucraina, il 21 febbraio ha riconosciuto l’indipendenza delle due repubbliche e il 24 febbraio ha invaso il paese.

 

In questo trentennio di tormenti nazionali e prove di forza, mescolando nazionalismo etnico e politica di potenza, l’Europa è stata di nuovo il centro della migrazione di popoli come nel secolo scorso. Così dicendo si nascondono le tragedie di altri popoli e altri continenti come sostiene già una pubblicistica speciosa e farisaica? Nient’affatto: non riconoscere le vecchie e nuove lacerazioni che gli europei non hanno mai sanato è un errore madornale anche perché quel che avviene qui getta onde di guerra e lutto tutt’attorno, in cerchi concentrici che s’allargano all’Africa, all’Asia, alle Americhe. Anche per questo abbiamo voluto ripercorrere con fatti e nude cifre esposte meticolosamente (persino troppo) le tappe di quelle tragedie umane e geopolitiche alle quali la Russia è stata ed è ancora protagonista, talvolta come vittima, per lo più come carnefice. Stalin ha sconfitto Hitler con il quale si era prima spartito la Polonia e poi ha spaccato l’Europa come se fosse un melone della sua Georgia. Il vittimismo ossessivo di Putin, ossequiato da una vasta corte europea, nasconde il ritorno dell’oppressione. L’occidente ha assistito incredulo: prima ha foraggiato la Russia con denari, investimenti, fabbriche, contratti favorevoli, ha ceduto la propria indipendenza per un tubo di gas, ha fatto in modo di non risvegliare l’orso che, nel frattempo, era ben uscito dal letargo. Non è facile calcolare quanti capitali sono affluiti anche in barba alle sanzioni e di come il Fondo monetaria e la Banca mondiale, odiate roccaforti dell’odioso capitalismo americano, sono intervenute prima e dopo il collasso finanziario del 1999. Cinque miliardi di dollari del Fmi allora scomparvero nel nulla, probabilmente rubati. 

 

La Russia isolata e accerchiata? Non scherziamo, ha spadroneggiato da Londra a Parigi, da Berlino a Roma come voleva e come poteva perché i suoi nuovi boiardi pagavano. Si sono disegnate linee di abbigliamento orribili che piacevano ai russi e solo a loro, si sono firmati accordi per scambi di informazioni riservate (Salvini docet), si sono vendute aziende telefoniche, acciaierie, banche (l’Italia non è stata seconda a nessuno). Abbiamo aperto i nostri teatri a musicisti e cantanti che piacciono a Putin. Adesso questa Europa alle cui mammelle Mosca ha succhiato ricchezza, viene minacciata di sterminio nucleare. 

Il modello putiniano non è così diverso da quello del passato, il nuovo zar si vanta di aver riportato la Russia ai fasti nefasti di grande potenza che sfida l’Occidente. E anche lui ha coltivato “la maledizione russa, quel rapporto millenario tra il suo sviluppo e la sua non libertà” (Vasilij Grossman, “Tutto scorre…”). Ora l’Europa occidentale non può che accogliere le donne, gli uomini, i bambini alla ricerca di sviluppo nella libertà perché questo è il suo modello che deve essere salvato. 

 

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