Roman Abramovich e Vladimir Putin (Ansa)

Roman Abramovich, il fratello di Vladimir

Stefano Cingolani

Londra celebra la fine dell’impero dell'ormai ex presidente del Chelsea, non il più ricco ma uno dei più vicini alleati di Putin. Mogli e imbrogli, mecenatismo e calcio. Dal Volga alla City, la sua vita è sempre stata un’avventura

"Fratelli di sangue”, titola il Mirror in prima pagina con le foto dei volti minacciosi di Roman Abramovich e Vladimir Putin. “The end of the Roman empire”, sentenzia il Financial Times con un gioco di parole. Tutti coloro che avevano celebrato la star del jet set, limitandosi a mugugnare contro Londongrad, la russificazione a suon di sterline della capitale inglese, adesso cadono da cavallo folgorati. “È sempre stato nella squadra di Putin. E chi lo sapeva?”, scrive sarcastica Marina Hyde sul Guardian. Fabrizio Maramaldo era napoletano, ma a quanto pare è cittadino del mondo.

 

Abramovich è il più strapazzato, anche se non è l’unico oligarca colpito da sanzioni, fa parte dei “miserabili sette” considerati il cerchio tragico del Cremlino, e in fondo nemmeno il più ricco e potente: nonostante il suo patrimonio superi i 10 miliardi di euro (nessuno conosce la vera cifra) c’è chi ha ammassato fortune e potere anche maggiori (per esempio Igor Sechin, l’ex agente del Kgb boss di Rosneft). Boris Johnson che finora aveva sempre rifiutato il bando chiesto dai laburisti, ha compiuto un altro voltafaccia: “Non possono esserci rifugi sicuri per quelli che hanno sostenuto il feroce attacco di Putin contro l’Ucraina”, ha dichiarato il premier. Secondo Dominic Raab, ministro degli Esteri britannico, Abramovich non solo ha “ricevuto concessioni e trattamento preferenziale”, ma ha anche attivamente “contribuito alla destabilizzazione dell’Ucraina, minacciando l’integrità territoriale e la sovranità”.

Evraz, l’impresa siderurgica da lui controllata, avrebbe fornito acciaio per la produzione di carri armati per l’esercito. Il titolo è stato sospeso alla borsa di Londra mercoledì. Addio Chelsea dei miracoli, addio case d’asta, musei, quadri acquistati senza guardare al prezzo e talvolta nemmeno alla qualità, addio ospitate televisive, abbracci con i tifosi, donne, amici, fiumi di champagne per quel ragazzone dagli occhi blu che emanava fantasia mentre spendeva e spandeva sulle sponde del Tamigi.
 

In realtà c’erano stati già avvisi di tempesta: nel 2018 il governo di Londra, turbato dall’avvelenamento della spia russa Serghej Skripal a Salisbury, non gli aveva rinnovato il visto e il miliardario russo e patron del Chelsea, il 28 marzo di quell’anno, diventò cittadino israeliano, stabilendo come richiede la legge del ritorno la residenza a Tel Aviv in un lussuoso appartamento ça va sans dire, un ex albergo sul lungomare. Un altro passaporto, quello portoghese, lo ha ottenuto grazie al rabbino di Porto, ma ora sembra che abbia falsificato le prove sulla discendenza. Ne verranno fuori altri di imbrogli per una vita che per molti è stata tutto un imbroglio. Lo Yad Vashem, il Museo della Shoah di Gerusalemme, ha deciso di “sospendere” la sua partnership con il magnate russo-israeliano e quindi le sue donazioni. Lo yacht Solaris pagato 600 milioni di dollari (lungo 40 metri con 18 cabine) dopo aver lasciato il porto di Barcellona sta navigando senza meta nel mar Ionio, come una nuova nave dei folli. 

 

Ma chi è davvero Roman Arkadievic Abramovich e perché adesso si parla tanto male di lui? Per ricostruire il suo profilo dobbiamo fare un salto agli anni tumultuosi e sfortunati di Gorbaciov. Gli oligarchi russi si possono dividere in quattro gruppi: quelli che hanno fatto fortuna con le privatizzazioni negli anni di Eltsin, quelli che debbono tutto a Putin, quelli che hanno avversato il nuovo zar (sono finiti in galera come Khodorkovskij o sono morti di morte violenta come Boris Abramovich Berezovskij) e quelli che hanno fatto un patto con lui, come Mikhail Fridman e, appunto, Abramovich. L’ironia della storia vuole che proprio Boris e Roman allora amici e sodali garantirono per Putin davanti a Boris Eltsin. Nato il 24 ottobre 1966 a Saratov, città sul medio corso del Volga da una modesta famiglia ebraica, Abramovich rimane orfano molto presto: la madre muore quando aveva due anni e il padre due anni dopo per un incidente nel cantiere edile dove lavorava. Sono gli zii a prendersi cura di lui, prima a Saratov poi a Mosca dove studia all’istituto tecnico, poi si arruola nell’esercito, una vita che non fa per lui, così, mentre la perestrojka comincia ad aprire l’Unione sovietica alle piccole imprese private, Roman si lancia nel più affascinante mondo degli affari.

 

Intanto cade il Muro di Berlino e due anni dopo si disfa anche l’Urss, “l’impero del male”, come lo aveva chiamato Ronald Reagan; implode per risorgere vent’anni dopo sotto nuove spoglie, il comunismo finisce nei libri di storia per dar vita a un impasto di nazionalismo militare, ortodossia religiosa, sciovinismo slavofilo. L’occidente non diventa una democrazia liberal-capitalista, molti russi s’illudono, pensano che fare soldi sia il modo migliore per lasciarsi alle spalle un mondo di privazioni materiali, repressione politica, segregazione culturale. Tra loro c’è Roman. Si butta nel commercio del petrolio non appena viene parzialmente liberalizzato e nel 1995 insieme a Berezovskij partecipa alla riffa dei voucher con i quali Egor Gaidar il primo ministro riformista privatizza l’industria di stato coltivando il sogno di un capitalismo popolare. 

 

Boris Abramovich, anche lui d’origine ebraica, più grande di vent’anni, era un matematico e ingegnere di valore, membro dell’Accademia delle scienze grazie alle sue ricerche teoriche. La fine dell’Urss per lui era stata la caduta di vecchie illusioni, ma l’inizio di nuove speranze. Amico di famiglia, aiuta Boris Eltsin dopo il golpe reazionario del 1991 che segna l’ascesa dell’allora presidente della Federazione russa. Berezovskij coinvolge il più giovane amico nella grande avventura prendendo il controllo della compagnia petrolifera Sibneft. Pochi anni dopo Roman Arkadievic acquista anche una quota di Aeroflot consolidando così la sua posizione nel modo degli affari. Il 1999 anche per lui come per la Russia è un anno di tragiche svolte. Il paese è al collasso, il caos politico ed economico combinato con il crollo del prezzo del petrolio portano Mosca al fallimento. Vladimir Putin viene nominato primo ministro e si distingue per la sua determinazione schiacciando la rivolta in Cecenia. Nel 2000 entra alla Duma, Eltsin lo designa suo erede e lo presenta alle elezioni. Berezovskij, a quel punto, si schiera apertamente contro Putin e cominciano i suoi guai.

 

Alla fine dell’anno si trasferisce a Londra come aveva già fatto Abramovich, ma tra i due cala il gelo tanto che Boris accusa Roman di frode e lo porta in tribunale. Il vero contrasto in realtà è politico perché Abramovich nel frattempo ha stretto un patto di non belligeranza con il nuovo padrone della Russia. Venduta a Gazprom la sua quota in Sibneft per 13 miliardi di euro, acquista Evraz, l’azienda siderurgica, e per alcuni anni diventa governatore della Čukotka, circondario autonomo dell’estremo oriente, al confini con l’Alaska, ricco di materie prime. Nel 2003 s’impone sulla scena mondiale prendendo il Chelsea per 60 milioni di sterline e a quel punto non è più un russo di provincia, un arricchito, un parvenu straniero che nessun club di Mayfair inviterebbe mai; no, all’improvviso balza agli onori delle cronache e nel grembo della fama. Compra senza guardare a spese calciatori e allenatori, si fa sponsorizzare da Gazprom, vince cinque campionati, due coppe dei campioni, un mondiale per club lo scorso febbraio. Sposato tre volte, ha sette figli (cinque con la seconda moglie Irina Malandina, ex hostess dell’Aeroflot e due con la terza moglie Dasha Zhukova, una modella). Il suo secondo divorzio gli è costato otto miliardi e viene considerato il più caro della storia. Olga Lysova, la prima moglie, ha avuto la sfortuna di consumare le nozze mentre il comunismo esalava l’ultimo respiro.

 

E Berezovskij? Il processo contro Abramovich gli costa cento milioni di sterline e lo rovina completamente. Perseguitato dai servizi segreti di Putin che lo abbandonano alla sua sorte una volta caduto in disgrazia, vive ad Ascot nel Berkshire, grazie all’aiuto della ex moglie Galina. Il 23 marzo del 2013 viene trovato impiccato, chiuso a chiave nel bagno nella sua casa. L’inchiesta non riesce a stabilire la vera causa della morte e resta un altro dei misteri irrisolti in quell’intreccio pericoloso tra Londra e la Russia e nel torbido mondo degli espatriati di lusso. Si è detto e scritto molto sugli oligarchi, tra osanna e disprezzo, senza mai indagare sul grande male che mina ancor oggi la Russia: la mancanza della borghesia. La modernizzazione da Pietro il Grande in poi viene da occidente ma il regime zarista ha continuato a badarsi sui latifondisti e i servi della gleba. Poi è arrivato il comunismo. Il passaggio all’economia di mercato è avvenuta senza la cultura del mercato come scrive Walter Laquer nel suo libro (Putinismo. La Russia e il futuro dell’occidente). Si dice che i capitalisti di ventura russi in fondo sono come i Robber barons americani, i Rockefeller, i Vanderbilt, i Carnegie, ma loro hanno accresciuto ricchezze private, gli oligarchi si sono appropriati della ricchezza pubblica. Ma non sono tutti uguali e ancor oggi si tende a gettare il bambino tenendo l’acqua sporca. 

 

A chi andranno le fortune di Abramovich? In parte sono nascoste nei paradisi fiscali a Cipro, Dubai, nella stessa Londra, in società celate l’una nell’altra come le matrioske, ma spesso senza la possibilità di arrivare fino in fondo. Il 28,6 per cento posseduto in Evraz è congelato. La compagnia siderurgica adesso è sott’accusa, ma è stata quotata nella City:  la Consob britannica non sapeva che cosa facesse? Adesso le azioni sono sospese con la farisaica formula di “proteggere gli investitori”. Lacrime amare si spargono sul Chelsea: addio sogni di gloria. Abramovich ha passato la società a una fondazione che serve da copertura. Chi comprerà il club? Un altro robber baron? Venderà i suoi gioielli? Dalle tribune di Stamford Bridge si leva un solo grido: chiunque, purché tenga Lukaku. E che fine faranno le opere di Francis Bacon e Lucian Freud? Nel 2008 Abramovich veniva incoronato come “il nuovo mecenate dell’arte mondiale” aveva comprato all’asta di Sotheby’s per 86,300 milioni di dollari il trittico di Bacon del 1976, poi per 33,6 milioni dalla concorrente Christie’s il quadro di Freud intitolato “Benefits supervisor sleeping”. Due cadeaux per la moglie Dasha Zhucova che voleva aprire una galleria a Mosca? O genuina passione per i due grandi esponenti del neorealismo pittorico inglese? Pochi anni dopo, nel 2015, l’ancora signora Abramovich  apre “Garage”, il nuovo museo d’arte contemporanea di Mosca, realizzato per 27 milioni di dollari dall’archistar olandese Rem Koolhaas che ha curato la trasformazione di quello che era stato, in epoca sovietica, il ristorante “Vremena Goda” (Le stagioni) a Gorky Park. E giù tutti a celebrare la nuova grande stagione della cultura russa sotto l’egida putiniana, alla faccia delle blande sanzioni che un occidente in preda a una crisi di nervi (d’invidia e d’astinenza scrisse la stampa russa) aveva comminato per l’annessione della Crimea. 

 

Il mecenatismo è una gran cosa, anche se un moralista si chiederebbe quanti hanno intinto il pennello, il calamaio, il portafoglio in quel che sarebbe diventato il sangue degli ucraini. Attenti, però, ad analizzare le tragedie della storia con le lenti dell’indignazione. Oggi meno che mai. Sconfiggere Putin, erodere il suo potere economico, politico, militare, disgregare il suo sistema di potere, guai però a voltare le spalle ai russi. Non sono tutti uguali, ha scritto sul Financial Times un liberale come Ivan Krastev, membro permanente dell’IWM, l’Istituto di Scienze Umane di Vienna. Altrimenti cosa resterà se non quel paesaggio desolato raccontato da Vladimir Sorokin nel suo libro Il giorno dell’Oprichin? Una teocrazia medievale la cui ideologia ufficiale è una sorta di corrotto misticismo, con una grande muraglia a dividere il paese dall’occidente; tutti i beni provengono dalla Cina e le idee da un oscuro e vagheggiato passato. Lo scrittore collocava la sua visione nel 2027. Ma forse era troppo ottimista.