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Sull'Ucraina Johnson fa fronte comune con l'Ue per difendere i valori liberali

Claudio Cerasa

Nonostante alcune ambiguità, il discorso del primo ministro inglese alla Conferenza di Monaco è un inno all'europeismo e alla democrazia. Viva l’Europa, viva Boris europeista!

Tra gli effetti imprevisti generati dall’attivismo militare della Russia ai confini con l’Ucraina (ieri Putin ha riconosciuto come russe due province del Donbass) ce n’è uno interessante che merita di essere valorizzato e che riguarda una formidabile prova di leadership offerta da quello che è uno dei capi di governo più in difficoltà dell’Europa. Il personaggio in questione è ovviamente Boris Johnson e l’avvicinamento progressivo e minaccioso delle truppe russe ai confini dell’Europa ha generato, cinque anni dopo l’allontanamento dell’Inghilterra dall’Europa via Brexit, un avvicinamento simmetrico, e non solo simbolico, tra il primo ministro inglese e i leader dei principali paesi europei.

Nelle ultime settimane, l’Europa ha mostrato una compattezza diversa rispetto a quella messa in campo nel 2014 ai tempi dell’annessione della Crimea alla Russia, durante i quali il ventre dell’Europa era così molle da aver reso possibile, un anno dopo l’aggressione russa, l’attivazione del raddoppio del gasdotto russo Nord Stream dalla Russia alla Germania senza passare più dall’Ucraina, e questa compattezza è stata messa in rilievo qualche giorno fa dallo stesso Boris Johnson in un bellissimo discorso tenuto dal primo ministro inglese alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco.

Primo concetto, forte: “Qualunque cosa accada nei prossimi giorni non possiamo permettere che i paesi europei siano ricattati dalla Russia, non possiamo permettere che la minaccia russa cambi l’architettura di sicurezza dell’Europa, non possiamo permettere una nuova Yalta o una nuova divisione del nostro continente in sfere di influenza”.

Secondo concetto, identitario: “La Gran Bretagna difenderà sempre la libertà e la democrazia in tutto il mondo, e quando diciamo che il nostro impegno per la sicurezza europea è immobile e incondizionato, le nostre azioni dimostrano cosa intendono le nostre parole. Se il presidente Putin ritiene che con le sue azioni può respingere la Nato o intimidire la Nato scoprirà che è vero il contrario”.

Terzo concetto, economico: “Il Regno Unito ha collaborato con l’Unione europea e con gli Stati Uniti per mettere insieme un pacchetto di sanzioni più severo e più forte, e di recente ho parlato con la presidente Ursula von der Leyen per discutere le misure preparate dall’Ue, in stretto coordinamento con la nostra economia”.

E’ vero. Il Johnson che per un attimo prova a travestirsi da Churchill invitando l’Europa a mostrare i suoi muscoli senza cedimenti è lo stesso Johnson che non ha ancora chiarito se le sanzioni colpiranno anche gli oligarchi russi che vivono a Londra insieme con un pezzo non irrilevante di establishment putiniano. Ma il Johnson che, dando lezioni di leadership a buona parte delle flosce e spente destre europee, in un momento di difficoltà dell’Europa è lì a esaltare la Nato, a difendere la democrazia, a sostenere la libertà, a inviare truppe, ad addestrare soldati, a offrire armi difensive all’Ucraina è un Johnson che, in modo sorprendente, aiuta l’Europa a trasformare la quasi aggressione della Russia non in un’occasione per mostrare i limiti dell’Europa ma in un’occasione utile per mettere di fronte alla Russia la debolezza di chi, con la potenza di una democratura, prova ad aggredire i valori non negoziabili delle democrazie liberali.

Rispetto al 2014 la novità è questa: i carri armati della Russia spaventano, ma la forza degli europei, e la volontà comune di difendere i confini degli stati sovrani sostenendo economicamente e militarmente la proliferazione delle società aperte, è qualcosa di più di un semplice e retorico manifesto di valori. E la sfida lanciata ieri da Putin sul Donbass costringe più che mai oggi a dire: viva l’Europa, viva l’europeo Boris. 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.