Foto LaPresse/Jean-Francois Badias 

Chi guida l'Europa adesso? Intanto facciamo funzionare il Pnrr italiano

Fabio Basagni e Marco Cecchini

Mario Draghi ha una posizione non secondaria in questo big game geopolitico. Ce l’ha perché il destino del NgEu e più in generale dell’Unione appare legato al suo successo nella realizzazione del Piano del recovery

Nel febbraio del 2013 il generale Valerij Vasil’evic Gerasimov, in seguito a capo delle forze armate russe, definì la nuova strategia “olistica” della Russia putiniana: perseguire la vittoria sul nemico (leggi l’occidente e la Nato)  più efficacemente, ovvero con mezzi “ibridi” –  informatici, psicologici, di “disinformatzia”, di propaganda e solo in parte, o in seconda battuta, militari. In Ucraina  abbiamo assistito a una pericolosa escalation dell’opzione militare nella più articolata strategia olistica di Mosca. E’ anche il prologo di una invasione? Da un punto di vista strettamente militare le forze russe ai confini ucraini non sembrano avere la consistenza sufficiente per una significativa occupazione di un paese di quasi 45 milioni di abitanti, ma certamente possono dare un massiccio sostegno psicologico e materiale a chi volesse organizzare un  colpo di stato a Kiev.

 

In ogni caso i bersagli possono essere molteplici. Se le truppe russe presenti in Bielorussia si stanziassero nel “corridoio” di Kalingrad dove hanno diritto di passo e che collega la Bielorussia alla più grande base navale sovietica, gli stati baltici aderenti alla Nato e all’Ue verrebbero fisicamente isolati dall’Unione e sarebbero più facilmente aggredibili. La tempistica di questa escalation ai confini dell’ex impero sovietico non è casuale perché coglie, senza contare i guai di Joe Biden, l’Europa in uno dei suoi ricorrenti momenti di debolezza. Paradossalmente la mossa di Putin ha finito per ricompattare l’Europa e la Nato. Ma per quanto? L’Unione oggi appare priva di una guida sicura. Sull’asse Berlino-Parigi vecchi leader sono usciti di scena (Angela Merkel) lasciando il posto a successori per ora opachi (Olaf Scholz), altri hanno davanti elezioni problematiche (Emmanuel Macron). Resta in campo il premier italiano Mario Draghi, il salvatore dell’euro apparso sulla scena europea un anno fa. Ma salvo cambi di programma, sempre possibili, per ora ha davanti poco più di un anno di governo, non sette ai vertici dello stato come sarebbe stato se fosse salito al Quirinale. 

L’Europa è a un bivio. Deve decidere se consolidare il Next Generation EU (NgEu), rivedere la propria governance, darsi nuove regole fiscali, muovere verso un bilancio comune e una vera unione bancaria, in prospettiva evolvere da confederazione in federazione di stati. Deve soprattutto cominciare a costruire la propria “autonomia strategica” (meglio sarebbe parlare di “identità strategica) e accettare di investire risorse importanti nella propria difesa se vuole essere una potenza globale e non un attore marginale. Vladimir Putin mira, riaprendo la ferita ucraina, ad approfittare di questo difficile passaggio per scavare un solco nell’alleanza euro-americana alzando il livello della tensione e provocando divisioni tra i partner, come prova l’atteggiamento ondivago della Germania di Scholz. In questo contesto di crescente conflittualità est-ovest diventa cruciale che l’Europa già nel 2022 trovi l’energia politica per un deciso cambio di passo in termini della propria sicurezza, cosa non facile ma sempre più urgente alla luce delle sfide geopolitiche in atto. 

 

Mario Draghi ha una posizione non secondaria in questo big game geopolitico. Ce l’ha  perché al suo successo nella realizzazione del Pnrr appare legato il destino del NgEu e più in generale dell’Unione. L’Italia infatti assorbe quasi un terzo delle risorse messe a disposizione dal progetto e oltre metà di esse sono a debito. L’idea di prolungare in qualche forma lo schema del NgEu e a seguire i progetti di maggiore integrazione e il sogno dell’autonomia strategica probabilmente non sopravviverebbero a un fallimento italiano sul Pnrr. L’indebolimento del progetto riformatore italiano è dunque uno dei canali attraverso i quali passa la destrutturazione del progetto riformatore europeo in ottica geopolitica, un indebolimento al quale guardano con favore forze interne ed esterne
La domanda centrale in questa complessa partita torna dunque al punto di partenza:  chi si assumerà la responsabilità di una nuova  leadership dell’Unione, e con quali forze, nei prossimi cruciali due tre anni? Poiché è certo che senza una guida non solo politicamente ed economicamente credibile ma forse anche “muscolare” – dotata di una seppur limitata forza armata e  politica estera comune –  l’Europa degli anni Venti rischia di perdersi di fronte alle spinte centrifughe del suo conglomerato di ventisette paesi e le innumerevoli sfide  globali .

Secondo Francois Heisbourg, eminenza grigia della Fondation pur la recherce stratégique francese, “gli scopi strategici dell’Europa dovrebbero essere quelli di difendersi da una Russia revisionista, proteggere i paesi europei da una diretta coercizione cinese e impedire (insieme a Stati Uniti e partner affini) che la Cina stravolga l’ordine internazionale basato su regole condivise. Charles P. Kindleberger, professore di Economia internazionale al Mit negli anni in cui Mario Draghi preparava il suo PhD, sosteneva che la Grande depressione del 1929-33, con le sue devastanti conseguenze economiche, sociali e politiche fu causata da un vuoto di leadership tra un Regno Unito in declino e un atteggiamento insulare dell’America ancora impreparata  ad assumere il ruolo di stabilizzatore del sistema internazionale. 

Il sistema attuale presenta per l’Europa pericoli per molti versi simili. Un’Europa senza Angela Merkel e con un cancelliere ancora incerto e alla testa di una coalizione eterogenea, con Macron in difficoltà rispetto al populismo interno, avrebbe bisogno di un ancoraggio fermo e capace di forti scelte strategiche in campo economico e nella politica estera e militare. Charles Michel termina a inizio 2024 il suo debole mandato come presidente del Consiglio dell’Unione. Chi lo sostituirà dovrà avere un profilo fortemente atlantico e marcatamente europeo. 

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