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Contro il corbynismo nemico delle libertà

Claudio Cerasa

La chiusura modello Brexit è un guaio, ma la chiusura modello Corbyn non è un guaio minore. Il voto inglese ci ricorda che la società aperta è un antidoto contro antisemitismo e razzismo. Perché la sinistra italiana deve diffidare del corbynismo

L’impresentabile sinistra inglese che si presenta oggi alle elezioni con buone possibilità di non sfigurare di fronte ai conservatori di Boris Johnson si ritrova davanti alla sfida elettorale con un macigno politico molto difficile da gestire che riguarda uno dei tratti forse più spaventosi del partito guidato da Jeremy Corbyn: la cultura antisemita veicolata dai nuovi laburisti. I fatti probabilmente li conoscete già ma vale la pena di metterli uno a fianco all’altro. L’84 per cento degli ebrei britannici, secondo un rapporto pubblicato all’inizio di dicembre da un importante centro studi inglese chiamato Antisemitism barometer, ritiene che il leader del Partito laburista Jeremy Corbyn sia una “minaccia specifica per gli ebrei”. Il rabbino capo del Regno Unito, Ephraim Mirvis, pochi giorni fa è intervenuto apertamente contro il candidato del Labour dalle colonne del Times chiedendosi “che ne sarà degli ebrei in Gran Bretagna se il Labour formasse il prossimo governo”, segnalando come “il modo in cui la leadership laburista ha affrontato il razzismo antiebraico è incompatibile con i valori britannici di cui siamo così orgogliosi” e denunciando la presenza di “un nuovo veleno che ha messo radici nel Partito laburista”. L’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, ha dichiarato negli stessi giorni che “se il rabbino capo è costretto a rilasciare una dichiarazione senza precedenti, questo ci dovrebbe allarmare per il profondo senso di insicurezza e paura provato da molti ebrei britannici”.

 

 

Il Labour, attualmente, è sotto inchiesta da parte della Equality and Human Rights Commission per questioni legate alla presenza di voci fortemente anti-semite all’interno del partito (l’unico partito inglese indagato da questa commissione prima di quello di Corbyn è stato il Partito nazionale britannico di estrema destra). Secondo un sondaggio commissionato da Jewish News, metà degli ebrei britannici “prenderebbe seriamente in considerazione” l’opzione di lasciare il paese se Corbyn diventasse primo ministro dopo le elezioni. E la scorsa settimana, tanto per ribadire il concetto, il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz si è augurato che Jeremy Corbyn perda le elezioni politiche con parole che più chiare non si può: “Personalmente spero che non sia eletto, con tutta questa ondata di antisemitismo”.

 

 

  

Corbyn, insieme con i suoi numerosi follower disseminati anche fuori dal Regno Unito, cerca da tempo di ridimensionare il problema e cerca da tempo di non distogliere l’attenzione degli elettori dal contenuto del suo libretto rosso, dal suo piano di nazionalizzazioni in stile sovietico, con ferrovie, servizi postali, servizi energetici, servizi idrici e infrastrutture a banda larga che il Labour vorrebbe trasferire allo stato, e dalla sua volontà di combattere i campioni della globalizzazione aumentando le imposte sulle grandi aziende, imponendo tasse sul reddito a coloro che guadagnano più di 80 mila euro, aumentando le tasse alle multinazionali, aumentando il prelievo delle imposte sulle plusvalenze e sulla tassazione dei dividendi. Quando si parla di Corbyn, e del suo programma elettorale, si tende a considerare il tema dell’antisemitismo del Labour corbyniano come se fosse un problema a se stante precipitato improvvisamente dal cielo.

 

Ma quello su cui i follower del corbynismo dovrebbero riflettere è se non ci sia una qualche simmetria tra l’essere schierati contro la società aperta e l’essere ostaggi di una cultura che combattendo le libertà tende inevitabilmente a sfociare anche nell’antisemitismo. Keith Kahn-Harris è uno scrittore inglese di successo e qualche mese fa ha pubblicato con la case editrice inglese Repeater un libro proprio su questo tema molto discusso sia in Inghilterra sia in Israele. Il libro si chiama “Strange Hate: Antisemitism, Racism and the Limits of Diversity” ed è un volume che dovrebbe far riflettere non solo la sinistra italiana in cerca d’autore oggi al fianco di Corbyn (un pezzo di Pd) ma anche quella destra italiana che mentre invita gli inglesi a non votare per Corbyn non si accorge di avere rispetto al tema della difesa della libertà lo stesso problema che ha la sinistra corbyniana. La tesi di Keith Kahn-Harris, sintetizzata a fine ottobre su Haaretz in un’intervista rilasciata alla giornalista Dina Kraf, è che “solo le società che sono in grado di promuovere fino in fondo i valori liberali – non liberali in modo partigiano, ma in modo classico e ampiamente definito – costituiscono il contesto migliore per poter proteggere non solo gli ebrei ma tutte le minoranze”.

 

 

Keith Kahn-Harris, ragionando sulla sinistra corbyniana, dice che il Labour si sta “rapidamente allontanando da questo contesto” e lo dice non in nome di una sterile difesa del multiculturalismo ma in nome di un concetto più sofisticato e decisamente più importante: l’essere contro la globalizzazione porta a rinchiudersi nei propri recinti e quando si perimetra il recinto di una nazione a farne le spese di solito sono non solo i ricchi ma sono anche le minoranze. Naturalmente non è una regola universale e come spesso capita non esistono regole che non coesistano con eccezioni ma come ricordava anni fa in Italia un socialista che meriterebbe di essere forse studiato al pari di Corbyn “le libertà sono sempre tutte solidali e non se ne offende una senza offenderle tutte”. Se sei contro la globalizzazione hai buone possibilità di alimentare il razzismo e l’antisemitismo. Se sei a favore della difesa della società aperta avrai meno possibilità di alimentare il razzismo e l’antisemitismo. Può piacere o no ma a destra e a sinistra i politici che portano avanti politiche ostili alla società aperta sono coloro che ogni giorno tolgono alla società un antidoto per difendere le nostre libertà. E se le libertà sono sempre solidali, se ne offendi una alla fine le offendi tutte. La chiusura modello Brexit è un brutto guaio, ma la chiusura modello Corbyn non è un male minore. E prima di trasformare Corbyn nel nuovo faro della sinistra europea forse, anche in Italia, conviene pensarci su e poi voltarsi rapidamente da un’altra parte.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.