Donald Trump (foto LaPresse)

Tutti giù nel bunker

Paola Peduzzi

I repubblicani americani difendono il loro presidente per molte ragioni (c’entra anche la paura) ma una è quella che conta: con chi potrebbero mai tradirlo? La fedeltà a un partito ha un prezzo, eccolo

Sarebbe bello poter seguire le testimonianze al Congresso americano sull’impeachment con l’enfasi che travolge tutti quelli che tuittano e rituittano che Donald Trump è “fottuto”, non potrà mai sopravvivere a tante accuse circostanziate, precise, combacianti. Sarebbe bello e sarebbe rassicurante, perché le istituzioni, nelle democrazie, a questo servono, a mettere ordine dove l’ordine non c’è, a trovare gli equilibri, nelle procedure e nelle leggi, quando ogni cosa sembra squilibrata: “checks and balances”, è così che funziona. Sarebbe bello, rassicurante e persino divertente poter guardare queste cronache americane con un po’ di sadico distacco, mentre si sgretola la versione trumpiana della questione ucraina una testimonianza alla volta, con la costanza di un rasoio. Sarebbe bello e rassicurante e divertente, ma non lo è. Perché alla fine di ogni giornata arrivano i resoconti dettagliati di quello che è stato scoperto e provato – Trump ha chiesto un favore all’Ucraina per ottenere materiale compromettente sul rivale democratico Joe Biden, ha detto che nell’attesa avrebbe congelato gli aiuti militari al governo di Kiev, e tutti sapevano tutto – e subito dopo segue il commento politico: i repubblicani fanno cerchio attorno al loro presidente, stanno nel bunker con lui, non hanno intenzione di contraddirlo, figurarsi tradirlo.

 

La questione dell’impeachment sta tutta qui: è la storia di un partito che deve scegliere tra il proprio paese e il proprio presidente

La questione dell’impeachment sta tutta qui: è la storia di un partito che deve scegliere tra il proprio paese (la chiamiamo democrazia, la chiamiamo l’America, e ci vengono gli occhi a cuore) e il proprio presidente, il quale si è spinto in quel territorio brullo dove sono state violate le regole fondanti del suo mandato. Non è un bel posto in cui stare, questo ai repubblicani bisogna concederlo: dopo tutto quel che si sono ritrovati a inghiottire da quando Trump è entrato alla Casa Bianca, pure questo impeachment non ci voleva, a un anno dalla rielezione, con un uragano alla Casa Bianca che ha fatto sparire nel buco nero del trumpismo buona parte della classe dirigente del partito, e con quel muoversi cinico e al contempo capriccioso del presidente che tiene tutti in un’allerta esasperante: chissà cosa si inventa oggi. Non ci voleva e – ironia assoluta – persino l’opposizione, il Partito democratico, ha tentato a lungo di non arrivare a questo punto, perché la messa in stato d’accusa del presidente drena ogni risorsa e ogni idea, e invece c’è bisogno tantissimo di entrambe. Abbiamo visto con la Brexit nel Regno Unito che cosa accade quando un paese è preso in ostaggio da un’unica, tormentata e polarizzante faccenda: non si salva nessuno, o forse si salvano soltanto i peggiori.

 

Eppure siamo qui alle prese con un impeachment che è nato morto perché per quanto si possa scoprire e svelare in queste testimonianze-scudisciate l’ultima parola resta ai repubblicani che hanno la maggioranza al Senato – e per dare il via libera all’impeachment ci vogliono i due terzi dei voti. I repubblicani al momento si sono infilati nel bunker, contano i giorni, sperano che tutto questo finisca presto e che l’inchiesta diventi soltanto un’altra macchia su una divisa talmente lercia da non farci più caso. Alcuni credono davvero che questa sia una manovra del deep state – vogliamo sapere chi è l’informatore, dateci il suo nome, è un nostro diritto – e che la teoria del complotto di Trump sulle ingerenze ucraine nella campagna elettorale del 2016 sia la realtà, anche se una persona informata dei fatti, l’ex inviata in Russia ed Europa del Consiglio di sicurezza nazionale Fiona Hill, ha detto sotto giuramento che si tratta di “fictional narrative”, una cosa che non esiste. Altri repubblicani sono intimiditi dal live tweeting che lo stesso Trump fa dell’impeachment e dal megafono dei media trumpiani (soprattutto Fox News, che è anche la tv più seguita dal pubblico che segue le dirette): hanno visto troppi colleghi, amici, conoscenti triturati dalla macchina social del presidente per non sapere che a mettersi di traverso si finisce per scomparire. Tradire non conviene quasi mai, in questo caso sa di sparizione. Non c’è una seconda vita per gli ex trumpiani, c’è al massimo qualche “finalmente” sussurrato dai più ipocriti, nient’altro, e se si considera che Trump ha ottime chances di essere rieletto, il tradimento tardivo significa doversi inventare un’altra esistenza. Altri repubblicani hanno detto di essere pronti a fare il loro dovere di rappresentanti del popolo nel caso le accuse rivolte al presidente si fossero rivelate concrete e provate: ci sono video che circolano affannosi sulla rete in cui repubblicani eleganti e convincenti ripetono di avere a cuore più l’interesse e la sicurezza dell’America che il loro presidente. Questi repubblicani ora per lo più tacciono, hanno parole soltanto per i guru della Casa Bianca che contattano al telefono con un’unica domanda: diteci qual è la linea di difesa adesso, e fatelo in fretta.

 

Più passano i giorni più la rivolta interna diventa impraticabile. Ed è già spaventosa: che alternativa c’è al presidente? Nessuna

Gli esperti di impeachment dicono che tutto è cambiato con la testimonianza dell’ambasciatore Gordon Sondland, a metà settimana. Finanziatore di Trump, grande appassionato della mondanità politica e della buona cucina, Sondland ha modificato tre volte la sua versione sulla famigerata telefonata di Trump al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, e inizialmente aveva anche tentato di non presentarsi a deporre. Dopo un po’ di resistenze, insomma, Sondland è arrivato davanti alla commissione del Congresso e ha detto: c’è stato un “quid pro quo”, cioè uno scambio di favori, o come dice la speaker democratica Nancy Pelosi “un ricatto”. Poi ha aggiunto: tutti erano “in the loop”, lo sapevano tutti quel che stava accadendo, la cosiddetta diplomazia parallela e informale dell’avvocato di Trump, Rudy Giuliani, era guidata direttamente dalla Casa Bianca, vicepresidente compreso.

 

L’impianto difensivo di Trump è venuto giù. C’è chi ha definito Sondland il “John Dean del 2019”, facendo riferimento al funzionario dell’Amministrazione Nixon che inizialmente contribuì a insabbiare lo scandalo del Watergate e poi rilasciò la deposizione che cambiò le sorti dello scandalo e della presidenza Nixon. Oggi Dean è, tra le altre cose, un commentatore della Cnn, un antitrumpiano e su Sondland ha detto: “E’ bello vedere ogni tanto che è possibile mettere il paese prima del proprio partito”. Non ci è dato sapere se Sondland abbia fatto un gesto tanto patriottico o se semplicemente il prezzo di una bugia sotto giuramento fosse troppo alto, ma sappiamo che Trump lo ha scaricato in un attimo. Era una “brava persona” fino a mercoledì, ora è un semi sconosciuto – e su Fox News la presa di distanza si è allargata a dismisura, per cui oggi per il pubblico dell’ammiraglia di Murdoch Gordon Sondland è un finanziatore dei democratici. Sappiamo anche un’altra cosa: Nixon si dimise un anno dopo la testimonianza di John Dean, soltanto quando si scoprì che c’erano delle registrazioni audio dell’allora presidente in cui discuteva delle intercettazioni al Watergate, di cui quindi era evidentemente a conoscenza. Nella sua audizione, Dean disse che forse quelle registrazioni esistevano, mettendo gli inquirenti sulla strada della pistola fumante che portò Nixon alle dimissioni. In quell’anno – era il 1973 – nonostante la deposizione, il presidente continuò a negare il proprio coinvolgimento, l’opinione pubblica non si mosse di molto e i repubblicani restarono granitici a sostenere il loro presidente. La commissione Affari giuridici del Congresso pubblicò un documento che spiegava che “lo scopo dell’impeachment non è la punizione personale; la sua funzione primaria è quella di salvaguardare il governo costituzionale”, cioè la democrazia. Ma finché non ci furono le registrazioni, americani e repubblicani non presero in considerazione l’ipotesi che fosse la loro stessa democrazia, non Nixon né le loro carriere, a essere in pericolo.

 

Molti sono intimiditi dal live tweeting di Trump e dal megafono dei media: una seconda vita da ex trumpiano non esiste

E’ difficile immaginare che ci si metta un anno a incriminare Trump: le testimonianze vanno velocissime e tra un anno si vota, non è interesse di nessuno portare l’impeachment fin dentro la campagna elettorale – lo è già, e per ora vince la versione trumpiana per cui i democratici stanno soltanto perdendo tempo, ennesima dimostrazione che non hanno a cuore il paese ma sono soltanto ossessionati, rancorosi, vendicativi, non hanno ancora digerito la sconfitta del 2016. Il tempo di questo spettacolo dipende moltissimo dai repubblicani, sono loro che possono rintanarsi nel bunker e contare i giorni oppure considerare l’alternativa, che è quella espressa da John Dean: il paese prima del proprio partito. E’ chiaro che più passano i giorni più questa strada – ammesso che ci sia qualcuno disposto a prenderla in considerazione sul serio – diventa impraticabile. Ma è già spaventosa. Proviamo a immaginarla: un manipolo di repubblicani al Senato – una ventina – decide di averne avuto abbastanza: le prove ci sono, il presidente Trump ha violato la Costituzione e comunque prima ha violato ripetutamente l’ortodossia di partito, ballando da solo e spesso sulle teste dei suoi colleghi di partito. A quel punto, colpo di scena, l’impeachment potrebbe diventare realtà, e Trump si dovrebbe dimettere. Il Partito repubblicano dovrebbe organizzare delle primarie improvvisate e arrivare alla convention di mezza estate con il suo candidato presidente. I Never Trumper, quel gruppo di conservatori che ha sempre considerato il presidente un’anomalia indigeribile, ripetono da tempo che il Partito repubblicano avrebbe dovuto iniziare a pensare al post Trump fin dall’inizio, in modo da poter avere una propria via d’uscita persino elegante e persino vincente dal buco nero del trumpismo. Ma i Never Trumper, che sono originariamente pochi ma nella retorica di Trump sono tutti quelli che non la pensano come lui (vorrebbe gettare anche Sondland tra questi fastidiosi oppositori, ma l’ambasciatore ha donato un milione di dollari alla sua campagna elettorale: mai-stato-trumpiano è difficile da sostenere), non sono mai stati ascoltati. Così se oggi i repubblicani al Senato dovessero decidere che la fedeltà al presidente Trump è troppo costosa e rischiosa, si troverebbero senza un’alternativa definita a Trump. Non solo: i democratici potrebbero esprimere come candidato presidente un radicale o una radicale (Elizabeth Warren per dire), tarato su Trump, che potrebbe arrivare alla Casa Bianca in un modo relativamente più semplice.

 

Nel bunker, il tradimento è costoso, anzi è roba da matti, la fedeltà è gratis e sì, state tranquilli, l’impeachment non è niente

Vorreste mai essere uno di questi repubblicani patriottici il giorno dopo le elezioni presidenziali? No. Questa è la ragione per cui i repubblicani si sono chiusi nel bunker, contano i giorni e sperano tantissimo che la gran cassa trumpiana da cui hanno goffamente preso ogni tanto le distanze funzioni invece alla stragrande, e che il paese resti convinto che questo impeachment era ed è non necessario, anzi dannoso: la vendetta che non va a buon fine, sad!

 

Resta la possibilità che gli esperti di impeachment abbiano ragione e che la settimana appena trascorsa e quelle che verranno dopo – ci sono altre testimonianze in arrivo – facciano rotolare l’opinione pubblica lontano da Trump e costringano i repubblicani a uscire dal bunker. Seguiremo ogni sussulto, ogni ripensamento, ogni sondaggio come se fosse quello decisivo, convinti che fedeltà e appartenenza a un partito siano beni meno preziosi della fedeltà e dell’appartenenza a idee e valori. Ma sappiamo – ce lo stanno raccontando in molti – che ogni domanda fatta dai repubblicani ai testimoni non è pensata per avere prove, ma per “essere inserita – ha scritto Ryan Broderick su BuzzFeedNews – in segmenti di Fox News, in condivisioni di Facebook e nei thread di 4chan. Il loro universo alternativo domina Fox News e Facebook. E la strategia dei repubblicani, per quanto possa sembrare confusa e bizzarra a chi è fuori, sta vincendo”. I repubblicani e i loro elettori stanno vivendo un altro impeachment: non era difficile da immaginarselo. Così nel bunker, il tradimento è costoso, senza un altro divano su cui accomodarsi è roba da matti, la fedeltà è gratis e sì, state tranquilli, l’impeachment non è niente.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi