Un supertestimone dice che il ricatto di Trump agli ucraini c'era

Daniele Raineri

L’ambasciatore americano all’Unione europea demolisce le tesi difensive della Casa Bianca. “Quid pro quo? Sì”

Roma. Ieri l’ambasciatore americano all’Unione europea, Gordon Sondland, ha demolito le difese del presidente Donald Trump davanti alle telecamere e davanti al comitato della Camera che indaga il caso di impeachment. Sondland ha detto che c’è stato il quid pro quo, che è il punto centrale del caso ed è più che sufficiente a reggere l’accusa di corruzione contro il presidente americano. La questione era: Trump ha chiesto agli ucraini di infangare lo sfidante democratico Joe Biden in cambio di una partita di aiuti militari decisivi? L’ambasciatore ha detto: “So che i membri di questo comitato hanno spesso cercato di inquadrare questi fatti complicati con una domanda semplice: c’è stato un quid pro quo? La risposta è sì”. Sondland è titolato a parlare perché è stato lui a occuparsi in modo diretto di quel dossier, anche se in un primo momento quando lo scandalo era scoppiato aveva negato. E così con il suo voltafaccia crolla uno degli argomenti difensivi di Trump, che diceva che i democratici erano stati capaci di trovare soltanto testimoni di seconda mano o che riferivano per sentito dire.

  

 

L’ambasciatore ha anche detto nel corso della sua testimonianza altre cose che smentiscono punti importanti della difesa della Casa Bianca. Trump aveva tentato di far passare l’idea che comunque lui era distante da questi eventi e che non se ne occupava personalmente, ma l’ambasciatore ha detto: “Agivamo tutti per ordine espresso del presidente” e ha anche descritto le telefonate personali con lui – che avevano un tono molto confidenziale. Trump dirigeva le manovre per avere il quid pro quo. Inoltre, Sondland ha detto che tutti quelli che contano alla Casa Bianca erano al corrente del tentato ricatto. “Everybody was in the loop”. Il capo dello staff Mike Mulvaney, il segretario di stato Mike Pompeo – che aveva detto di essere all’oscuro della faccenda – e il vicepresidente Mike Pence, che ora tenta di distanziarsi con poco successo.

 

Un altro punto importante è che Trump voleva dagli ucraini soltanto che annunciassero l’inchiesta e non che la facessero davvero. E’ un ragionamento politico ovvio. L’annuncio sarebbe bastato a proiettare su Biden un’ombra di colpevolezza che avrebbe danneggiato molto le sue speranze di successo nella campagna presidenziale – anche perché le elezioni americane sarebbero arrivate molto prima della possibile conclusione dell’inchiesta. E’ probabile che l’accusa contro la famiglia Biden, che sarebbe parsa credibile perché fatta dal governo ucraino, sarebbe stata tirata fuori ogni giorno durante la sfida fra Trump e i democratici. Biden per ora è lo sfidante più temuto dal presidente, perché i numeri dei sondaggi dicono che in una sfida diretta sarebbe più forte degli altri candidati democratici. La Casa Bianca aveva fatto circolare l’idea che Trump si fosse interessato in modo generico al problema della corruzione in Ucraina e non che volesse danneggiare proprio Biden. Ma se Trump voleva dagli ucraini soltanto un annuncio, è chiaro che del problema della corruzione in Ucraina non gli importava nulla. Cercava soltanto di scatenare una tempesta mediatica contro un rivale politico.

 

Ieri mattina la Casa Bianca aveva già distribuito alle persone che sarebbero andate in tv a commentare la deposizione uno schema con le cose da dire e al punto primo c’era: l’ambasciatore Sondland ha negato che ci fosse un quid pro quo tra il presidente e gli ucraini. Non si aspettavano che l’ambasciatore scaricasse Trump, in modo così netto e invece la deposizione di ieri è diventata senz’altro l’elemento più solido dell’inchiesta. Sondland è diventato ambasciatore in Europa perché ha fatto una donazione da un milione di dollari a Trump (una pratica legittima in America) e ieri era davanti a una scelta esistenziale: continuare a proteggere il presidente e rischiare dal punto di vista penale oppure mollarlo. Ha scelto di mollarlo e ieri Trump ha detto di non conoscerlo “molto bene”, anche se un mese fa lo aveva definito “un grande americano”.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)