Una delle due petroliere attaccate mentre transitavano per il Golfo dell’Oman

Escalation

Altre due petroliere in fiamme nel Golfo. Come minacciato dall'Iran

Daniele Raineri

L’America applica la politica della “pressione massima” contro Teheran. Sequenza di attacchi lunga un mese

Roma. Dopo la firma dell’accordo sul nucleare nel luglio 2015 e quindi nella fase terminale dell’Amministrazione Obama, l’Iran cominciò a fare manovre di disturbo molto aggressive contro le unità della marina americana nel Golfo persico. Gli iraniani sfioravano le grandi navi avversarie con imbarcazioni leggere e droni, puntavano laser negli occhi dei piloti di elicotteri e aerei, non perdevano occasione di umiliare i rivali davanti alle loro coste. Nel gennaio 2016 catturarono persino dieci marinai americani che erano andati alla deriva per un problema meccanico e li liberarono soltanto dopo avere girato filmati imbarazzanti. Con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca queste manovre di disturbo cessarono del tutto perché la nuova Amministrazione era troppo imprevedibile, l’Iran si convinse che era meglio non offrire il pretesto per un conflitto nel Golfo persico. L’Amministrazione Trump ha una posizione molto dura nei confronti dell’Iran, ha revocato l’accordo nucleare, ha dato nomine importanti a uomini che sono considerati falchi contro l’Iran da molto prima che Trump entrasse in politica – come Mike Pompeo e John Bolton – e segue la cosiddetta politica della “maximum pressure”, vale a dire della massima pressione possibile contro il regime. Di questa politica fanno parte l’inserimento delle Guardie della rivoluzione nella lista dei gruppi terroristici internazionali (all’inizio di aprile) e l’imposizione di sanzioni contro chiunque acquisti greggio dall’Iran (che dal primo maggio sono totali, nel senso che valgono contro chiunque: prima alcune nazioni erano esentate).

  

Dall’inizio di maggio la situazione di tranquillità nel Golfo è finita ed è stata rimpiazzata da un clima di guerra in cui tutto è possibile. Domenica 5 maggio l’Amministrazione americana ha annunciato l’invio di una portaerei e di bombardieri nell’area per rispondere a una non meglio specificata minaccia iraniana. Il 12 maggio quattro petroliere sono state attaccate con ordigni esplosivi – cosa è successo non è ancora chiaro, ma l’ipotesi più forte è che alcuni sommozzatori abbiano attaccato delle mine agli scafi delle petroliere con l’intento di danneggiarle ma non di affondarle. Il 14 maggio le milizie Houthi che combattono in Yemen e sono appoggiate dall’Iran hanno attaccato con i droni un oleodotto saudita, in più punti. L’Arabia Saudita è il principale alleato americano nel Golfo. Due giorni fa gli Houthi hanno sparato un missile balistico contro l’aeroporto della città saudita di Abha, che ha colpito l’edificio delle partenze e ha ferito 26 persone. Oggi due superpetroliere sono state attaccate mentre transitavano per il Golfo dell’Oman, che è una delle rotte strategiche più importanti del mondo. Da quella strettoia, che vede contrapposti da una parte l’Iran e dall’altra i regni del Golfo alleati con l’America, devono passare tutte le navi cariche di greggio che partono dal Golfo persico.

  

    

A questo punto c’è da chiarire un fatto importante: non c’è un collegamento diretto fra questa sequenza di attacchi e l’Iran, che nega ogni responsabilità. Ma questo tipo di confronti asimmetrici funziona così: sanzioni americane contro sabotaggi iraniani, alleanza con i sauditi in Yemen per Trump e alleanza con gli Houthi in Yemen per l’Iran, e così via.

    

L’Iran aveva minacciato di colpire quel traffico se gli americani avessero imposto sanzioni totali contro le esportazioni di greggio iraniano. Oggi una delle due petroliere trasportava petrolio saudita e l’altra lavorava per una compagnia giapponese, proprio mentre il premier giapponese Shinzo Abe era in visita diplomatica a Teheran, per mediare tra il regime iraniano e l’Amministrazione Trump. Mentre le petroliere erano in fiamme, il Grande ayatollah ha scritto su Twitter (che lui può usare, gli iraniani normali no) che rifiuta ogni ipotesi di incontro con Trump perché con lui “non ne varrebbe la pena”. Adesso si aspetta la contromossa americana.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)