6 giugno 1989. I carri armati dell'esercito popolare di liberazione occupano piazza Tian' anmen, due giorni dopo il massacro (Foto di Manny Caneta/Afp, LaPresse)

La strage fantasma. Così Pechino ha riscritto la sua storia

Giulia Pompili

Trent’anni dopo c’è ancora chi nega o giustifica Tian’anmen. La Nuova Via della Seta cinese è un pezzetto di quella manipolazione che non può essere ignorata, soprattutto oggi. Parla il sinologo Scarpari 

Roma. Sono passati trent’anni dalle proteste di piazza Tian’anmen, quando il governo cinese decise di reprimere con la violenza la manifestazione di studenti, operai, cittadini che da giorni scendevano in piazza per chiedere la trasformazione della Cina in una democrazia. Quel che è successo nella notte tra il 3 il 4 giugno del 1989 è ancora un argomento tabù nella Cina contemporanea, che esercita una vigorosa censura anche sui social network per controllare la narrazione sulla vicenda – per questo, soprattutto online per evitare la censura ci si riferisce spesso al 4 giugno come al “35 maggio”. Parlare di quei giorni che sconvolsero la Cina e il mondo è più che mai importante per interpretare i rapporti di forza di oggi, la contrapposizione con l’America di Trump e la necessità di studiare la Cina prima di arrivare a decisioni politiche e commerciali. Abbiamo parlato di questo con Maurizio Scarpari, uno tra i più autorevoli sinologi italiani, che è stato ordinario di Lingua cinese classica all’Università Ca’ Foscari di Venezia e ha alle spalle decine di pubblicazioni tra le quali “Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato” (2015, il Mulino) un testo fondamentale per comprendere la trasformazione della Cina del presidente Xi Jinping.

 

Secondo lei dobbiamo mettere da parte la “democratizzazione” con caratteristiche occidentali della Cina e l’apertura di cui ci eravamo illusi prima dell’arrivo di Xi Jinping?

 

Non esiste alcun processo di “democratizzazione con caratteristiche occidentali” in atto in Cina al momento, né mi sembra di vedere i prodromi di un suo sviluppo in un futuro imminente. Semmai è vero il contrario: nella Cina di Xi Jinping i cosiddetti “valori occidentali” (mai ben definiti, a dire il vero) sono ritenuti inadatti e per certi versi pericolosi per lo sviluppo armonioso della società cinese del nuovo millennio, così come immaginata dal partito comunista, tant’è che sta avvenendo un forte recupero dei valori cinesi tradizionali, e in particolare del confucianesimo. I movimenti rivoluzionari del primo Novecento e i maoisti che hanno governato il paese fino almeno agli anni Ottanta ritenevano il confucianesimo un retaggio feudale, una fonte di arretratezza che costituiva un impedimento per la modernizzazione del paese. Oggi si crede l’esatto contrario: Xi Jinping sostiene con orgoglio i valori confuciani e considera i princìpi della tradizione cinese essenziali per la costruzione della Cina “della nuova èra”.

Non esiste alcun processo di “democratizzazione con caratteristiche occidentali” in Cina. Il problema della Via della Seta

Lei ha messo in relazione la questione dei diritti umani con quella molto più politica della Via della Seta, soprattutto perché alcune zone in cui passa la Via della Seta sono quelle su cui il Partito esercita un controllo sociale maniacale. Dunque, secondo lei, la Via della Seta non è soltanto un progetto di investimenti e business?

 

La Bri (Belt and Road Initiative), comunemente chiamata Nuova Via della Seta, è un progetto grandioso e molto ambizioso, come mai ne sono stati realizzati nella storia dell’umanità, che risponde a molteplici esigenze: è innanzitutto un disegno egemonico finalizzato a riportare la Cina al centro del mondo. Non dimentichiamo che la Cina è stata per secoli la regione più avanzata e prospera del pianeta che per alcuni secoli produceva il 30 per cento della ricchezza mondiale. Il suo stesso nome ce lo ricorda: Zhongguo significa infatti “paese al centro” del tianxia “ciò che sta sotto il cielo”. Non deve perciò sorprendere che, divenuta seconda potenza economica del mondo, ambisca a riprendersi un ruolo di primo piano sullo scacchiere internazionale. In quest’ottica la Bri va intesa come un progetto politico con valenze culturali, economiche, commerciali e – in prospettiva – militari, che pone la Cina al centro di un sistema di connessioni e di relazioni complesse con tutte le altre nazioni del pianeta. E’ inoltre finalizzata alla risoluzione del problema della sovrapproduzione industriale determinatosi in seguito alla crisi finanziaria del 2007-2008 che ha comportato una riduzione del volume delle esportazioni. La questione dei diritti umani, sollevata da Emmanuel Macron nel recente incontro con Xi Jinping a Parigi, non è di poco conto, se si considera che uno degli snodi strategici della Bri è la Regione Autonoma del Xinjiang, dove è in atto una politica di controllo e repressione delle dissidenze che ha per oggetto la popolazione uigura di fede musulmana: si stima che almeno un milione di persone sia attualmente rinchiuso nei cosiddetti “centri di formazione vocazionale”.

 

Lei ha scritto recentemente: “Credere e far credere che il Memorandum sia un semplice accordo commerciale senza valenze politiche, come se l’economia fosse disgiunta e indipendente dalle logiche di governo, è un’assurdità che pagheremo cara”. Quali potrebbero essere le conseguenze della firma di questo Memorandum per l’Italia?

 

Le possibilità sono due: chi ha gestito la questione della firma del Memorandum o non ha una conoscenza della realtà cinese, tanto da prenderla a modello per il nostro paese su temi rilevanti come la questione migratoria o la libertà di espressione– e mi riferisco alle posizioni assunte dal sottosegretario Michele Geraci, la mente e l’artefice della politica italiana nei confronti della Cina adottata dal ministro Di Maio che di Cina sa poco o nulla e quindi si muove con incompetenza e avventatezza –, oppure è in malafede, volendo raccontare agli italiani solo una parte delle implicazioni della vicenda, che non sono solo positive.

 

La firma del Memorandum ha rappresentato un successo politico enorme per Xi Jinping, nessun paese dell’Europa che conta lo aveva mai sottoscritto finora, e ha isolato l’Italia, ancor più di quanto già non lo fosse, dai suoi partner tradizionali, che hanno cercato in tutti i modi di dissuadere Luigi Di Maio e Giuseppe Conte dal seguire la strada suggerita da Geraci. Una firma rilevante sul piano politico è stata concessa con leggerezza, ma in cambio di cosa? Di molto meno di quanto Macron abbia ottenuto il giorno dopo senza dover sottostare a un bel nulla. A Parigi, dopo aver siglato contratti per 40 miliardi (a fronte dei nostri 2,5), Xi Jinping ha trovato ad attenderlo Jean-Claude Juncker e Angela Merkel, invitati da Macron stesso, a sottolineare il fatto che è con l’Europa che conta e non con un singolo paese come l’Italia che alla fine la Cina deve fare i conti, senza per questo rinunciare a intese e accordi commerciali a livello bilaterale.

  

Chi ha gestito politicamente la firma del Memorandum non conosce la Cina oppure è in malafede, dice Scarpari

Un anno fa la Danimarca ha aperto un’indagine interna su quanto accaduto nel 1995 e nel 2002, quando durante le visite di Hu Jintao a Copenaghen la polizia ha accolto i desiderata cinesi bloccando e tenendo sotto controllo i dissidenti residenti nel paese. Ecco, ricordando la visita di Xi in Italia, è possibile parlare di casi simili anche in altri paesi?

 

Certo, è successo più volte e succederà di nuovo. Si consideri che il periodo di Hu Jintao fu più aperto di quello attuale e l’occidente aveva sperato (confondendo, come spesso accade, la realtà con le proprie aspirazioni) che fosse stata imboccata la strada delle libertà individuali che avrebbe condotto la Cina verso forme di governo più democratiche (in senso occidentale). La storia cinese alterna costantemente momenti di apertura e chiusura; basti ricordare la campagna di liberalizzazione culturale, politica e sociale “dei cento fiori” promossa da Mao Zedong negli anni ’50 o il periodo che ha portato migliaia di studenti e intellettuali a manifestare in piazza Tian’anmen nel 1989. Sono passaggi della storia importanti che non possono essere ignorati e che dovrebbero servire da monito per i nostri governanti.

Per tornare ai fatti di piazza Tian’anmen, crede che prima o poi il governo cinese arriverà a dire tutta la verità su quanto accaduto?

 

Credo che quel c’è da sapere sia ormai sufficientemente noto. Non penso che nuovi documenti che dovessero emergere in futuro potranno cambiare radicalmente il quadro delle nostre conoscenze, soprattutto dopo la recente pubblicazione delle trascrizioni e degli appunti dei discorsi fatti dai principali leader nel corso delle riunioni riservate che si tennero in quei giorni concitati (“The Last Secret: The Final Documents from the June Fourth Crackdown”, New Century Press, Kong Kong, 2019). Le sole incertezze riguardano il numero dei morti, ma in Cina è difficile, se non impossibile conoscere questi dati, anche in relazione a questioni meno drammatiche.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.