Il Museo nazionale della Cina a piazza Tiananmen, Pechino. Foto LaPresse

Se la Cina è cambiata, dobbiamo cambiare il nostro modo di raccontarla

Giulia Pompili

“I cinesi sono troppo impegnati a far soldi”, ci dice Hu Xijin, direttore del Global Times 

Roma. Se la Cina è cambiata, è quanto mai necessario cambiare anche il modo in cui l’occidente racconta la Cina. E’ questo il dibattito che da qualche mese tiene impegnati sinologi e giornalisti che si occupano di questioni orientali, ma non solo. Non è un caso se il primo paese ad aver messo in discussione il proprio approccio con Pechino sia stata l’Australia, che già da qualche anno vive a fasi alterne l’influenza cinese nel proprio territorio – nella politica, nel business, e ovviamente anche nella sfera della comunicazione.

   

Qualche giorno fa l’argomento più discusso sui social network era legato ad alcune dichiarazioni di Bob Carr, detto Beijing Bob. Ex ministro degli Esteri australiano, labourista, a lungo considerato la pedina di Pechino a Canberra, Carr è adesso direttore di un think tank piuttosto famoso, l’istituto di relazioni Australia-Cina (Acri) all’Università tecnologica di Sidney – finanziato da un personaggio controverso come il milionario Chau Chak Wing, cittadino australiano di origini cinesi. Durante un intervento pubblico all’Australian Centre on China in the World, Carr ha detto: “Penso che uno dei motivi per cui l’America ha vissuto come uno choc la velocità dell’ascesa della Cina è che i suoi giornali non coprono gli affari cinesi. Il New York Times, per qualche ragione, ha deciso di boicottare la Cina. Se hanno un ufficio in Cina – e mi dicono che ce l’hanno – è sotto sedativi. Non produce storie. Se fossi il direttore del giornale vorrei sapere perché la Cina non viene spiegata, illuminata dal lavoro dei giornalisti”. E c’è qualcuno d’accordo con lui: “Non voglio commentare il lavoro del New York Times”, dice al Foglio Hu Xijin, direttore del Global Times sin dal 2005 e uno dei personaggi più influenti nel mondo della comunicazione cinese. “Vorrei solo dire che in generale, i giornalisti dei media occidentali sono un po’ deviati nella loro osservazione della Cina”. Secondo Hu, classe 1960, che usa quotidianamente Twitter come una clava per commentare i fatti del giorno, “Questo tipo di reportage ha creato l’impressione che la Cina sia piena di dissidenti perseguitati come Liu Xiaobo, e che la questione dei diritti umani sia il focus di tutta la società cinese”, riferendosi evidentemente all’attenzione internazionale sullo Xinjiang e i “campi di rieducazione” per la minoranza uigura. “Ma questi sono argomenti marginali in Cina”, spiega Hu. “I cinesi sono impegnati a fare soldi e migliorare le loro vite”. Del resto, fare il giornalista occidentale in Cina, oggi, non è un lavoro facile: secondo varie fonti sempre più spesso le autorità di Pechino “usano” il visto giornalistico permanente (quello per i corrispondenti) per decidere chi può restare nel paese e chi no. L’ultimo diniego è capitato al direttore del desk asiatico del Financial Times, Victor Mallet, costretto a lasciare Hong Kong, che tradizionalmente è considerato un luogo dalle regole più rilassate. E così i giornalisti sono costretti, in qualche modo, a seguire l’agenda cinese attraverso le pagine del Global Times, ovvero la versione internazionale del Quotidiano del popolo, organo del Partito. “Ma il Global Times ogni giorno stampa quello che il Partito vuole che all’estero si legga, quello che Pechino vuole sia discusso in occidente nei riguardi della Cina. Non altro”, dice al Foglio una fonte che lavora nel mondo dei media cinesi e che preferisce restare anonima.

  

Una settimana dopo Carr è stato costretto alla pubblica ammenda: il New York Times infatti, ieri, ha pubblicato in prima pagina la prima di una serie di inchieste intitolata “China Rules”, sottotitolo: “Così la Cina è diventata una superpotenza”. Scritto dal direttore del desk Asia Philip P. Pan, con l’aiuto di tutto lo staff in Cina, il primo episodio spiega come “per decenni, gli Stati Uniti hanno incoraggiato e aiutato l’ascesa cinese, lavorando con i suoi leader e la sua gente per costruire la più importante partnership economica del mondo, che avrebbe risollevato entrambe le nazioni. Durante questo periodo, otto presidenti americani ipotizzavano, o speravano, che la Cina alla fine si piegasse a quelle che erano considerate le regole stabilite della modernizzazione: la prosperità avrebbe aumentato le richieste del popolo sulla libertà politica e portato la Cina tra le nazioni democratiche. Oppure l’economia cinese avrebbe vacillato sotto il peso del dominio autoritario e del marciume burocratico. Nessuna delle due cose è accaduta”. “La scorsa settimana ho criticato la mancanza di una copertura seria da parte della stampa americana sulle enormi trasformazioni della Cina”, ha scritto su Twitter Carr. “Ora il NYT mette in discussione l’assunto dell’America che la Cina fosse destinata a fallire. E’ la prima lunga analisi su questo argomento”. La Cina è cambiata, anche il modo in cui la raccontiamo sta cambiando.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.