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Tra spie e contrabbando, l'operazione Yellowbird che salvò dai carri armati i dissidenti di Tiananmen

Francesco Radicioni

La caccia ai leader della “primavera cinese” e la rete di attivisti che cambiò Hong Kong, dove i sogni di democrazia dovevano fare i conti con il sangue nelle strade

Bangkok. All’indomani del bagno di sangue che si consumò per le strade di Pechino all’alba del 4 giugno, in tutto il paese iniziò la caccia all’uomo per acciuffare i leader degli studenti, gli intellettuali liberali e i sindacalisti che per 50 giorni avevano occupato la piazza simbolo del potere cinese. Dopo che l’esercito aveva aperto il fuoco su manifestanti e semplici cittadini che quella notte tentarono di fermare l’avanzata dei carri armati per le strade della capitale, il messaggio arrivato dai palazzi di Zhongnanhai non lasciava alcun margine per un compromesso. La repressione era stata “corretta” e “inevitabile” – si affrettava a dire Chen Xitong, all’epoca sindaco di Pechino – mentre le manifestazioni su Tiananmen e in altre città cinesi erano liquidate come una cospirazione orchestrata “da un manipolo di persone”. Nove giorni dopo che la piazza era stata “ripulita”, le autorità diramarono la lista dei ventuno più ricercati tra i leader della “primavera cinese”. Al secondo posto c’era Wu’er Kaixi. Qualche settimana prima che scattasse la repressione, il suo volto era apparso in tutta la Cina quando – in sciopero della fame e con addosso il pigiama a righe dell’ospedale – aveva interrotto il premier conservatore Li Peng nel corso di un memorabile confronto televisivo. Per questo carismatico ventunenne, l’unica possibilità di evitare il carcere era la fuga attraverso un rocambolesco viaggio di duemila chilometri verso sud.

 

“Quando abbiamo visto il magnetico panorama notturno di Hong Kong, mi sono chiesto ‘è reale oppure sto sognando?’”, rievocherà molti anni dopo, dal suo esilio a Taiwan, in un’intervista a Bloomberg. A garantire che Wu’er Kaixi e centinaia di altri protagonisti della “primavera cinese” potessero lasciare la Repubblica Popolare è stata una rete composita – nome in codice: Operation Yellowbird – fatta di attivisti democratici di Hong Kong, diplomatici stranieri, ma anche personaggi legati alle Triadi e compiacenti funzionari cinesi. Avvolta per anni in un alone di mistero, pare che l’evocativo nome derivi dall’espressione cinese “la mantide insegue la cicala, ma non vede che l’uccello giallo è alle sue spalle”. Usando appartamenti sicuri, certificati medici che nascondevano messaggi criptati e le oliate rotte del contrabbando tra Hong Kong e la Cina meridionale, sono stati messi al sicuro anche Chen Yizi e Yan Jiaqi, già consiglieri politici del leader riformista Zhao Ziyang appena epurato dal Partito e finito agli arresti domiciliari a Pechino.

 

Mentre le autorità battevano la capitale alla ricerca dei leader di Tiananmen, la prima difficoltà per chi tentava la fuga era come farsi trovare dalla Yellowbird, senza esporsi agli occhi di delatori e polizia. Per poi assicurarne il trasferimento a Hong Kong, gli attivisti dell’ex-colonia britannica avevano contattato Chan Tat-ching, noto come Brother Six, che aveva imbarcazioni veloci e fama di una certa dimestichezza nell’eludere i controlli quando contrabbandava un po’ di tutto nella provincia del Guangdong. Nel frattempo, il reverendo Chu Yiu-ming, figura di spicco della Hong Kong Alliance in Support of Patriotic Democratic Movements in China, lanciava appelli ai governi occidentali per accettare le richieste di asilo di chi arrivava da Pechino.

 

Non sempre le cose sono andate bene: la polizia riuscì a scovare nella Cina meridionale Chen Zeming e Wang Juntao – le “mani nere” dietro Tiananmen – che furono poi condannati a 13 anni di carcere. “Per decenni Hong Kong è stata la prima destinazione per chi fuggiva dalla Repubblica Popolare”, dice al Foglio una fonte diplomatica nell’ex-colonia britannica. “E’ stato così quando i comunisti di Mao presero il potere, poi negli anni della carestia dopo il Grande Balzo in Avanti e ancora all’indomani di Tiananmen”. Era solo di una manciata di anni prima l’accordo tra Deng Xiaoping e Margaret Thatcher che avrebbe portato nel 1997 alla restituzione della colonia britannica alla Cina, così che a Hong Kong gli eventi della primavera di trent’anni fa furono seguiti con grandi speranze e forti aspettative. Venivano raccolte generose donazioni per comprare tende e cibo destinati a chi era a Tiananmen, delegazioni di studenti partivano alla volta della capitale della Repubblica Popolare per unirsi alle manifestazioni, oltre un milione di hongkonghesi scese per le strade a sostegno della “primavera cinese”. Secondo Steve Tsang, direttore del China Institute della Soas di Londra, è stata proprio la repressione che scattò a Pechino all’alba del 4 giugno a cambiare la storia Hong Kong e il rapporto dei suoi abitanti con la Cina. “Molti a Hong Kong vedevano come un fratello chi stava manifestando”, ha detto il professor Tsang al South China Morning Post. “Questo è però cambiato completamente quando il massacro è iniziato e hanno compreso che era stato proprio il loro essere hongkonghesi a salvarli dalla morte e della repressione”.

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