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Manovra d'accerchiamento

Tripoli verso la guerra, era questa la “svolta in Libia” di Conte?

Daniele Raineri

Il generale Haftar muove i soldati contro “l’oppressore” Serraj, pochi mesi dopo la foto assieme di Palermo

New York. In Libia le truppe del generale Khalifa Haftar hanno raggiunto Gharyan, una piccola città cento chilometri a sud della capitale Tripoli e l’hanno occupata senza sparare un colpo perché si sono messe d’accordo con le fazioni armate che la controllavano. Haftar, che controlla la Cirenaica – la metà est del paese – e ambisce a prendere il controllo di tutta la Libia per riunificarla come ai tempi di Gheddafi, negli ultimi sei mesi aveva già occupato i pochi punti strategici nel sud del paese e ora muove i soldati per prendere anche Tripoli. La capitale con un lungo pezzo di costa a ovest è in mano a un governo diverso, quello di Fayez al Serraj, che in teoria è ancora sponsorizzato dalla comunità internazionale e dall’Italia (e altri stati ancora, come Turchia e Qatar) ma è molto chiaro che questo flebile appoggio esterno non basta a frenare il generale, che è spalleggiato da molti governi stranieri, tra cui Emirati Arabi Uniti, Egitto, Russia e Francia. La retorica di Haftar è molto aggressiva. Nel suo messaggio ai soldati di ieri dice che è arrivato il momento della “grande conquista di Tripoli” per rispondere all’appello dei libici che chiamano per essere liberati dalla corruzione e per “far spalancare il terreno sotto ai piedi all’oppressore” (quindi a Serraj). “A chi posa le armi e alza la bandiera bianca non sarà fatto alcun male e le sue proprietà non saranno toccate”, ha detto, e suona come un messaggio preventivo a tutte le milizie che controllano la strada che ancora manca e Tripoli stessa: siamo disposti a combattere, ma è meglio se troviamo un accordo come è appena successo a Gharyan. Il suo portavoce Ahmed Mismari dice che “le donne di Tripoli urleranno di gioia all’arrivo dei soldati dell’Esercito nazionale libico, come già hanno fatto quelle di Bengasi e di Derna” (due vittorie precedenti delle truppe di Haftar) e in precedenza aveva avvertito che chiunque si oppone alla marcia dei soldati di Haftar “è di al Qaida”. E difatti queste manovre per arrivare ad accerchiare la capitale sono ancora definite in via ufficiale dal comando di Bengasi “operazioni antiterrorismo”. Del resto i soldati si chiamano “Esercito nazionale libico”, come se rappresentassero già la Libia intera. Serraj ha risposto con l’ordine di usare la forza militare, bombardamenti aerei inclusi (ma è una forza inferiore), “per proteggere la vita dei civili e le infrastrutture strategiche dai terroristi, dai gruppi criminali e da coloro che operano al di fuori della legittimità”. Un lungo giro di parole per dire: da Haftar.

 

A questo punto viene il sospetto che la fotografia in cui Khalifa Haftar e Fayez al Serraj stringevano la mano al presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, alla Conferenza di Palermo del 13-14 novembre – non sono passati nemmeno cinque mesi – non fosse proprio quella svolta di pace in stile Camp David che il governo gialloverde voleva far credere. Ricordate? Quella a cui in teoria dovevano partecipare pure Trump, Macron, Merkel e Putin. “Il 2019 in Libia sarà l’anno della svolta”, aveva detto Conte. Peccato però che la svolta potrebbe essere una nuova guerra civile . Ieri l’Agenzia Nova raccontava la scena surreale dell’ambasciatore italiano, Giuseppe Buccino Grimaldi, ricevuto a palazzo dal ministro dell’Interno Fathi Bashagha – del governo Serraj – per constatare come le condizioni di sicurezza nella capitale siano di molto migliorate e per parlare del sostegno italiano all’addestramento della polizia di Tripoli. Potrebbe finire presto sotto assedio, potrebbero esserci battaglie “zenga zenga”, vicolo per vicolo come diceva Gheddafi e il governo di Serraj potrebbe dover abbandonare i palazzi, ma la capitale libica è una città in cui la sicurezza sta aumentando. 

 

Inutile dire che se nella peggiore delle ipotesi ci fosse davvero una battaglia per prendere Tripoli, tutti i dossier che interessano all’Italia ne sarebbero molto danneggiati almeno sul medio periodo. Le partenze dei barconi dalla costa libica, la sicurezza degli impianti del settore energetico in cui l’Italia ha sempre investito molto, il rischio terrorismo (almeno due attentati in Europa, quello di Manchester e quello di Berlino, sono collegati a uomini dello Stato islamico in Libia) sarebbero dossier fuori controllo per un periodo di tempo indeterminato. Se serve a farci sentire meno inetti, nemmeno il vertice organizzato dagli Emirati Arabi Uniti a febbraio per far incontrare Haftar e Serraj ad Abu Dhabi ha prodotto risultati.

 

Oggi Haftar conta sul fatto che la mera esibizione di forza, qualche scontro diretto e molto brutale e una serie di accordi con le tante milizie locali basteranno a prendere Tripoli. Il fatto che abbia annunciato la Grande Conquista mentre il segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, è a Tripoli e a dieci giorni da un conferenza nazionale – sempre organizzata dalle Nazioni Unite – che doveva riaprire i negoziati fra le parti suona come una minaccia: siamo più forti di tutta questa diplomazia inconcludente. Perdipiù l’italiano Conte è in visita in Qatar, quindi la dichiarazione di sfida di Haftar arriva mentre due grandi sponsor del nemico sono a colloquio. Ieri tuttavia le milizie molto agguerrite della città-stato di Misurata, che sta a est della capitale e con la sua potenza militare ha fatto sempre da terzo polo fra la Tripoli di Serraj e la Bengasi di Haftar, hanno dichiarato che entreranno in guerra contro i soldati di Haftar se quelli continueranno la loro avanzata da sud. Sono le stesse milizie che nel 2016 espugnarono Sirte, capitale dello Stato islamico, con un’operazione militare di sei mesi appoggiata dagli aerei americani. E furono loro a resistere per sei mesi e casa per casa all’assedio delle truppe di Muammar Gheddafi durante la rivoluzione. Non è dato sapere se oggi le milizie di Misurata sono tutte d’accordo fra loro come il blocco compatto che erano, oppure ancora se parlano così soltanto perché vogliono alzare il prezzo della loro acquiescenza in un eventuale negoziato con Haftar, ma il rischio latente di una guerra civile fra l’est e l’ovest non è mai stato così vicino come in questo “anno della svolta”.

 

Fino a marzo 2018 il governo italiano ha gestito la Libia grazie a un quartetto formato dal premier Gentiloni, dal ministro dell’Interno Marco Minniti, dall’ambasciatore Giuseppe Perrone e dal capo dei servizi Alberto Manenti. Il governo gialloverde ha tentato di continuare sulla linea ereditata – Salvini volò a Tripoli al secondo mese di governo – ma con sempre minore convinzione. E’ come se lungo la strada avesse deciso di lasciare progressivamente tutto alla forza di gravità, che in Libia vuol dire lasciare l’iniziativa al generale Haftar. Sembra ieri il luglio 2018, quando il presidente americano Trump affidò a Conte durante una visita ufficiale a Washington il ruolo di interlocutore privilegiato dell’America per quel che riguarda le faccende libiche. Ma Trump in due anni di mandato non ha mai speso una parola a proposito della situazione in Libia e questo suo disinteresse ha depotenziato a catena tutti i governi che a lui fanno riferimento. Emirati e Francia appoggiano esplicitamente Haftar. La Casa Bianca preferisce ripiegare da molti fronti, punta a ritirare tutti i soldati dalla Siria e sta negoziando un accordo di facciata con i talebani per abbandonare anche l’Afghanistan, è lecito supporre che non sia interessata a puntellare la credibilità dell’Italia nel paese dirimpetto. “La Libia si fida di noi”, aveva detto a novembre Angelo Tofalo, sottosegretario alla Difesa, che però tre anni fa, prima di arrivare al governo, era schierato con i golpisti libici che volevano cacciare il governo Serraj da Tripoli. Tutta questa fiducia non si vede.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)