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I dettagli della vanità di Trump e cos'è che lo preoccupa più di ogni cosa

Paola Peduzzi

Che cosa resta della deposizione dell’ex avvocato del presidente americano, delle domande dei deputati e dell’esame che verrà

Milano. I termini utilizzati per commentare la testimonianza di Michael Cohen al Congresso hanno un sapore apocalittico, di amori finiti e di grandi guai in arrivo. L’ex avvocato del presidente Donald Trump ieri ha avuto un altro appuntamento nell’Aula, questa volta a porte chiuse: si parlava di Russia, la questione che ha aperto tutta l’inchiesta sulla Casa Bianca, ed essendo materia molto sensibile – il rapporto del procuratore speciale Mueller è attesissimo, ma ancora non c’è – è stata tenuta più segreta. Ma quel che abbiamo visto di Cohen, mercoledì, per tutto il giorno (noi anche di notte, le ragazze del Congresso appena elette che tanto fanno parlare di sé hanno parlato per ultime) non ha nulla a che fare con la Russia, ma tantissimo con il sistema Trump, con il suo business, con la sua famiglia e con i suoi manager. Gli esperti lo dicono da tempo: trovare una pistola fumante nelle relazioni con il Cremlino è complicato – poi magari Mueller ce l’ha fatta, non lo sappiamo – e pur avendo investigato l’investigabile ancora una connessione certa non c’è. Con i soldi invece è tutto più semplice: follow the money, come dicono loro. E così è andata, con Cohen. Lui pentito e amareggiato, con la reputazione sotto le scarpe come è accaduto a molti di quelli che sono stati, per poco o molto tempo, sotto l’ala trumpiana, parlava da amante tradito, con quella consapevolezza del dopo: e sì che lo sapevo com’era, eppure sono rimasto.

 

I deputati repubblicani hanno cercato di insistere su questo: l’amante tradito è per forza cattivo e falso. 

 

Forse presso il loro elettorato sono anche usciti bene, ma le prove elencate, i dettagli, e soprattutto le responsabilità di altri manager di Trump – è stata Alexandria Ocasio-Cortez, la beniamina del mondo liberal, a fare la domanda decisiva che porterà ad allargare l’indagine – hanno restituito un’immagine nitida di un Trump cinico, interessato al proprio business e all’effetto-che-fa. Fin qui nulla di male, si dirà: le aspettative nei confronti del presidente sono basse, e che fosse un uomo di marketing più che un politico s’era capito. Ma “follow the money” chissà dove porta: è qui che anche chi è più neutro o almeno non del tutto ostile nei confronti di Trump vede le crepe più grandi.

 

Mike Allen, come sempre accade, ha riportato una definizione precisa: “La visita proctologica che abbiamo davanti” (se non sapete cos’è questo esame, gugolate: basti sapere che la proctologia è una scienza medica che si occupa del colon-retto e dell’ano). La metafora è di Timothy O’Brian di Bloomberg, che è uno personalmente informato dei fatti: nel 2006 fu citato in giudizio da Trump (richiesta: 5 miliardi di dollari) perché aveva scritto che Trump aveva un reddito molto più basso di quello che dichiarava. Questo aspetto è da un lato divertente (per noi) e dall’altro rischioso (per Trump): nella deposizione di Cohen si vede che il presidente gonfia i numeri del suo business quando vuole comparire in alto nella classifica di Forbes, e se li abbassa o svaluta i suoi asset quando vuole facilitazioni fiscali. Il traino è la vanità, ma i nomi che Cohen ha fatto rispondendo alla Ocasio-Cortez sono pesanti come macigni (li leggete in queste pagine). Ed è difficile trovare un nemico peggiore di un amante tradito che era pure il tuo avvocato.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi