La deposizione di Michael Cohen, l'ex avvocato di Donald Trump, alla Camera (foto LaPresse)

L'ex avvocato fidato di Trump lancia accuse durissime a Trump

Daniele Raineri

Dai pagamenti alle donne fino agli affari in Russia, Michael Cohen dice cose gravi persino per questo presidente

New York. Mercoledì Michael Cohen è andato al Congresso a testimoniare sotto giuramento contro il suo ex capo Donald Trump in una seduta molto attesa e trasmessa in diretta tv. Cohen è stato l’avvocato e uno dei collaboratori più stretti del presidente americano per più di dieci anni, ha gestito per lui dossier molto delicati e martedì sera aveva distribuito ai giornalisti le venti pagine della sua deposizione del mattino dopo, in modo che potessero cogliere con un poco di preavviso le conseguenze legali di quello che stava per dire. Ecco i passaggi più importanti e poi a seguire il punto-chiave che potrebbe danneggiare molto la difesa del presidente dal punto di vista legale.

  

  

Cohen ha detto che Trump “è un razzista, un manipolatore e un bugiardo” e che non si aspettava di diventare davvero presidente degli Stati Uniti. L’intera campagna elettorale fu pensata come un espediente per aumentare il valore del suo nome, del suo brand, e renderlo così più attrattivo per gli investitori che avessero voluto puntare soldi sulle sue iniziative commerciali. Anche per questo motivo, che non credeva di vincere, Trump continuò a trattare sottobanco con il governo russo per la costruzione di una Trump Tower a Mosca – un affare che poteva fruttare “centinaia di milioni di dollari” secondo Cohen. 

 

Il presidente ha ordinato all’avvocato di scrivere alcune lettere al suo liceo e al suo college per intimare di non rendere mai pubblici i suoi voti perché è preoccupato per la sua reputazione (Cohen ha mostrato una copia delle lettere). Gli ha chiesto di pagare una pornostar e una modella di Playboy perché tacessero della loro relazione con Trump, perché se avessero parlato avrebbero danneggiato la sua candidatura alle elezioni, e poi lo ha rimborsato con un paio di assegni (Cohen li ha mostrati). Ha chiesto un prestito a Deutsche Bank e ha consegnato documenti finanziari gonfiati per sostenere la sua richiesta (è un reato). Per vanità nel 2013 ha usato i soldi della sua fondazione di beneficenza per alzare in modo artificiale il prezzo di un suo ritratto venduto all’asta – e poi si è vantato su Twitter che il suo ritratto era stato venduto al prezzo più alto. Cohen ha detto di non avere le prove di una collusione tra il presidente americano e il governo russo ma di avere “sospetti”.

 

Il punto chiave della testimonianza è questo: nel luglio 2016, pochi giorni prima della Convention democratica, Trump è nel suo ufficio che parla al telefono in viva voce con Roger Stone e Cohen è presente; Stone informa Trump che ha appena finito di parlare al telefono con Julian Assange, il direttore del sito Wikileaks, che gli ha annunciato che nel giro di un paio di giorni il sito pubblicherà molte mail trafugate dai computer del comitato elettorale di Hillary Clinton; Trump, che allora era candidato alla presidenza, risponde “Non sarebbe magnifico?”. E’ il punto importante per due motivi. Il primo è che Trump ha già consegnato alcune risposte scritte al procuratore speciale Robert Mueller che indaga sulla possibile collusione ed è molto probabile che in quelle risposte abbia dichiarato falsamente che non sapeva nulla dell’operazione di Wikileaks per danneggiare la campagna della sua rivale Clinton. Se invece Cohen testimonia che Trump sapeva in anticipo, potrebbe esserci una dichiarazione falsa in un’indagine. Il secondo motivo è che l’intelligence americana ha già stabilito con certezza che il sito Wikileaks fu usato come uno strumento da parte dell’intelligence russa durante l’operazione per aiutare Trump a vincere. A questo punto, se Trump oppure gli uomini del suo staff avessero incoraggiato o appoggiato Wikileaks mentre il sito attaccava la campagna rivale (e ci fossero le prove) diventerebbero anche loro una parte di quell’operazione diretta dai russi e non sarebbe una buona posizione.

 

Cohen inoltre spiega un punto molto discusso: Trump gli chiese oppure no di mentire a proposito delle trattative con il governo russo per costruire una Trump Tower a Mosca? Cohen mentì al Congresso e disse che quelle trattative si fermarono a gennaio 2016, mentre invece poi ha ammesso che andarono avanti ed è importante perché di fatto il candidato dei repubblicani stava negoziando in segreto con un governo straniero un accordo molto lucroso mentre chiedeva agli americani di essere votato come presidente (e non un governo straniero qualsiasi, ma il governo straniero che aveva dato alla sua intelligence la missione di aiutare Trump). Cohen risponde che Trump non chiede le cose in modo esplicito, ma che gli fa capire sempre cosa deve dire in pubblico mentre poi in privato si continua a fare il contrario. Racconta che prima della sua deposizione sotto giuramento davanti al Congresso nel 2017 gli disse come già gli aveva detto per molti mesi: “Michael. There is no Russia, there is no collusion, there is no deal”. E quindi: “Alla fine, io sapevo esattamente cosa lui voleva che io dicessi”.

 

I repubblicani in aula hanno usato tutto il tempo concesso loro per fare domande per attaccare la credibilità di Cohen, che non ha mai respinto le accuse, anche perché si era già dichiarato colpevole nell’agosto 2018 e a dicembre è stato condannato a tre anni di prigione.

 

Trump mercoledì ha scritto su Twitter dal Vietnam che Cohen è un bugiardo che gli lancia accuse addosso soltanto per evitare anni di prigione. Si tratta però di una linea difensiva debole, perché Cohen è stato il suo uomo di fiducia dal 2007 fino all’anno scorso – dire ora che è un imbroglione di cui non fidarsi e che quello che dice è poco credibile non aiuta il presidente. Dal punto di vista legale, ormai per Cohen i giochi sono chiusi quindi accusare oppure no Trump non gli farà ottenere sconti di pena. La deposizione pubblica è un modo per raccontare le cose che sa e rendere pubblica – molto pubblica – la sua versione dei fatti.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)