Un esponente dei gilet gialli manifesta a Parigi (Foto LaPresse)

La rabbia d'Europa si mobilita, ma c'è protesta e protesta

Paola Peduzzi

La voglia di referendum anima i gilet gialli come gli anti Brexit. Poi c’è la rabbia che entra a Palazzo

Milano. La rabbia d’Europa scende in piazza, i media si riempiono di reportage scanditi dagli ormai imprescindibili gilet gialli (l’Egitto ne ha vietato la vendita, misura preventiva molto significativa) e poi allargano la visuale, si protesta in Ungheria, si protesta in Inghilterra, si protesta in Austria, si protesta in Germania, e via di altre piazze, il subbuglio è di tutti. La rabbia d’Europa però non è tutta uguale e non ha nemmeno lo stesso segno, e semmai la malizia sta negli occhi di chi guarda e di chi, di volta in volta, vuole definire le piazze buone e quelle cattive, la mia piazza e la tua, quella in cui tu scenderai e quella in cui invece non sei nemmeno invitato.

 

La rabbia d’Europa ha forme diverse, e nella sua manifestazione di piazza si trasforma, perché nel frattempo, tra il caro benzina francese (che è stato sospeso, ma i gilet gialli sono ancora lì) e la riforma del lavoro ungherese (che è frutto di un calcolo governativo che funziona in tempi di piena occupazione e non oltre), si introducono altri elementi che hanno a che fare con la politica, con l’interpretazione della volontà popolare, anche con le strumentalizzazioni, inevitabili. I gilet gialli non sono più quel che erano cinque settimane fa in Francia (la prima rotatoria occupata è di gennaio, figurarsi), e certo i giubbottini catarifrangenti che compaiono nelle piazze della destra estrema tedesca non sono una dimostrazione di solidarietà per i lavoratori francesi che non possono permettersi un pieno dell’automobile troppo costoso. Per non parlare di quanto è diversa la rabbia di chi protesta a Londra, rabbia contro la Brexit, rabbia europeista, rabbia di chi non si arrende all’inevitabilità del divorzio dall’Ue: nel programma di 25 punti dei gilet gialli francesi c’è la Frexit e l’uscita dalla Nato, per dire. 

 

“Dobbiamo intercettare la rabbia” è un refrain che ha quasi perso il suo significato, perché la rabbia è diventata un alibi buono per ogni cosa (assieme all’indignazione, di qualsiasi segno sia, tutti rabbiosi, tutti indignati, tutti incartati), e perché nel tentativo di formulare alternative per il futuro ci siamo infilati in quel vicolo corto che è la differenza tra popolo e populismo, e procediamo per strattoni invece che per processi. Così la piazza francese ora punta al bottino più grande, il “Ric”, référendum d’initiative citoyenne, e le sinistre – quel che resta del Partito socialista e gli “insoumis” di Jean-Luc Mélenchon – cercano di intestarsi la battaglia, il popolo che riprende l’iniziativa politica – e il confine tra democrazia e demagogia, come scriveva ieri il Monde (che è di sinistra), è tanto sottile quanto pericoloso.

 

Lo stesso accade al di là della Manica, dove il popolo referendario anti Brexit sancisce con la sua battaglia la sconfitta della democrazia rappresentativa: il governo e il Parlamento non sono riusciti a darci un ritiro dall’Ue in qualche modo condiviso, tocca ricontarci di nuovo, un’altra volontà popolare da maneggiare a meno di tre anni da quella precedente. Il People’s Vote, che nasce unicamente come piazza, diventa una mobilitazione allo stesso tempo europeista e contro le istituzioni che non sono più rappresentative: un gran caos, a guardarlo da vicino. Lo stesso che c’è a Budapest, dove la protesta mescola insofferenze a insofferenze, c’è chi è lì in difesa dell’università finanziata da Soros (Soros!), chi contro la corruzione, chi contro la riforma del lavoro che dà più potere ai datori di lavoro (eccolo, il vicolo corto della differenza tra popolo e populismo) e chi contro il regime illiberale del premier Orbán. La sintesi non c’è, c’è soltanto il tifo, quale piazza mi assomiglia di più, in quale piazza ci diamo appuntamento, chi viene e chi è meglio che stia a casa. La mobilitazione ha una forza insopprimibile, e il rischio è che poi la rabbia e l’indignazione entrino a Palazzo, come è accaduto a noi, e lì riveli quel che è: una caricatura della politica, in un vicolo corto.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi