Manifestanti anti Brexit nel giorno dell'accordo. Foto LaPresse

In bilico sulla Brexit

David Carretta

Che cosa ha ottenuto la May, cosa ha dovuto cedere e perché l’accordo migliore che c’è non piace a nessuno

Bruxelles. L’accordo sulla Brexit è il meglio che Theresa May potesse ottenere per il bene del Regno Unito fuori dall’Unione europea e, proprio per questo, è l’accordo politicamente più tossico per il primo ministro britannico. Le 585 pagine di bozza di trattato, ma soprattutto il protocollo per evitare il ritorno della frontiera fisica tra Irlanda e Irlanda del nord, condannano il Regno Unito a restare in alcune strutture istituzionali e regolamentari dell’Ue ben oltre il 29 marzo 2019, giorno della Brexit, e il 31 dicembre 2020, momento della fine del periodo transitorio. May, che aveva promesso di uscire da tutto (mercato unico e unione doganale, oltre che dall’Ue), alla fine sta consegnando ai britannici una Brexit molto morbida. La sovranità e la libertà del Regno Unito saranno fortemente limitate. Bruxelles continuerà a dettare le regole in numerosi settori. La Corte di Lussemburgo potrà prevalere sui tribunali britannici. E’ il prezzo pagato da May al realismo. In un negoziato asimmetrico con 27 paesi compatto, il Regno Unito aveva tutto da perdere. Minacciare un “no deal” era inutile perché è un suicidio economico. Alla fine, l’accordo May “realizza la Brexit” e “evita un disastro per l’economia britannica”, ha spiegato ieri Guy Verhofstadt, il negoziatore dell’Europarlamento.

  

Il “backstop” irlandese (la soluzione di sicurezza contro la frontiera fisica che metterebbe a repentaglio la pace degli accordi del Venerdì Santo) prevede la creazione di un “territorio doganale unico” tra Regno Unito e Ue che permetterà di evitare tariffe, quote e controlli sulle regole di origine, ma priverà Londra della possibilità di firmare accordi di libero scambio con il resto del mondo nel settore delle merci e dei prodotti agricoli. Come se non bastasse, l’Irlanda del nord sarà legalmente separata dall’isola della Gran Bretagna: Belfast dovrà applicare il codice doganale dell’Ue e rimanere allineata alla legislazione europea su una serie di regole del mercato unico (regole su merci, produzione agricola, controlli veterinari, Iva e accise). Su alcuni prodotti agricoli e merci che transitano tra l’Irlanda del nord e la Gran Bretagna saranno necessari controlli, introducendo una separazione economica interna al Regno Unito.

  

Il caponegoziatore dell’Ue, Michel Barnier, in realtà ha avuto “un approccio molto generoso verso i britannici”, utilizzando tutti i margini che aveva per andare incontro alle esigenze di May, spiegava ieri una fonte europea. Il successo maggiore per il premier britannico è aver convinto l’Ue a sottoscrivere quello che di fatto è un accordo di libero scambio. Nel “territorio doganale unico” le merci potranno circolare liberamente attraverso le frontiere, senza dazi e senza quote. Le imprese britanniche resteranno nella catena del valore aggiunto europeo e continueranno a esportare come oggi verso i 27, I consumatori potranno non cambiare abitudini su tutto (o quasi) ciò che è “Made in Eu”. Ma il costo in termini di perdita di sovranità per May è elevato. Non solo il sogno della Global Britain che va a firmare accordi commerciali con Donald Trump finisce nel cassetto: il Regno Unito dovrà applicare le regole decise a Bruxelles su aiuti di stato, concorrenza, tassazione, standard sociali e ambientali. Anche in questo caso, Barnier si è mostrato generoso accettando in alcuni casi una “clausola di non regressione”: Londra dovrà applicare la legislazione in vigore al momento dell’uscita, ma non sarà per forza costretta a inseguire tutte le novità introdotte dall’Ue (la Francia è particolarmente irritata da questa concessione). Ma nel caso degli aiuti di stato saranno la Commissione e la Corte di Giustizia dell’Ue ad avere l’ultima parola: sarà impossibile per May convincere colossi come Nissan a mantenere la produzione nel Regno Unito a colpi di sussidi pubblici. Questo “quadro di concorrenza leale” – come lo ha definito Barnier – era indispensabile per evitare che il Regno Unito diventasse una Singapore del Mare del nord. Il “territorio doganale unico” ha anche un costo economico, si deve pagare per questa relazione speciale con l’Ue.

  

Ufficialmente, May e Barnier sostengono che il “backstop” non dovrà per forza essere attivato. L’Ue e il Regno Unito cercheranno di risolvere la questione irlandese con l’accordo sulle relazioni future e gli sviluppi tecnologici. Se la quadra non sarà trovata entro il 31 dicembre 2020 – e non sarà trovata – il Regno Unito potrà scegliere di estendere il periodo transitorio, ma rischierebbe di restare di fatto con entrambi i piedi dentro l’Ue a tempo indeterminato. Ma Barnier ha già indicato che il territorio doganale unico “offre le basi” anche per i negoziati sulle relazioni future: l’ambizioso accordo di libero scambio potrebbe replicare la libera circolazione di merci senza quote, senza dazi e (quasi) senza controlli, ma a condizione che il Regno Unito resti allineato all’Ue. Tutto questo è ovviamente inaccettabile per i brexiteers che vogliono riprendere il controllo totale della sovranità britannica. Ma è anche inaccettabile per molti remainers che finora hanno lavorato per limitare i danni: che senso ha sostenere questo accordo, indispensabile a evitare la catastrofe del no-deal, nel momento in cui perfino May evoca lo scenario “no Brexit”?

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