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Uscire dall'Europa non conviene

Paola Peduzzi

Trema tutto attorno alla premier inglese May, e trema anche lei, proprio ora che ha trovato un accordo (morbido morbido) con l’Ue sulla Brexit. Che si fa? La tentazione di un nuovo referendum e l’esempio greco (non è uno scherzo)

Trema tutto attorno a Theresa May, trema anche lei, come al solito, più del solito, perché la rivolta dei suoi è grande e la tentazione cannibale del Partito conservatore è ingovernabile. Il ministro della Brexit, Dominic Raab, si è dimesso (dopo quattro mesi scarsi), così anche la sua vice Suella Braverman, la ministra del Lavoro Esther McVey e il sottosegretario per l’Irlanda del nord (che è un remainer), mentre in Parlamento i falchi brexiteers capitanati da Jacob Rees-Mogg organizzano un voto di sfiducia contro la premier May. L’accordo provvisorio che è stato trovato con l’Unione europea per l’uscita del Regno Unito non piace a nessuno, non ai brexiteers che si sentono ingannati e traditi; non ai remainers che la Brexit non la vogliono; non a chi intravede la possibilità di dare una spallata alla May e giocarsi l’andata al potere – questa è la posizione del leader laburista Jeremy Corbyn. Le motivazioni del rifiuto sono diverse, ma lo strumento utilizzato è uno solo e colpisce la May, che prova a tenere duro, come ha fatto finora nello stupore generale, ma non ha scudi a sufficienza per proteggersi.

 

Il piano che il governo di Londra ha negoziato con l’Europa è quanto di più soft si potesse immaginare e dimostra un fatto che andrebbe ribadito con tutta l’enfasi del mondo: uscire dall’Ue non è conveniente. Chi dice che l’esito del compromesso è stato condizionato dalla volontà di punizione dell’Ue sbaglia: gli europei sono stati spesso duri e anche un po’ beffardi, ma negli ultimi mesi – quando il testo è stato tolto dalle mani dei politici e dato in quelle dei tecnici ché sulla Brexit l’improvvisazione e il tifo politico non contano, conta la competenza, contano i dettagli e i cavilli – sono stati molto collaborativi. Semmai il problema è che il governo inglese aveva affrontato il divorzio con leggerezza, ponendo linee rosse dettate dall’ideologia e non dalla pratica, ritrovandosi, questo sì, a doverle superare e a non avere giustificazioni valide, se non quella indicibile e vera: uscire dall’Ue non è conveniente. Per conciliare posizioni inconciliabili, la May ha dovuto ammorbidire i toni con l’Europa e ammorbidirli con i brexiteers e questo piano è il risultato di un gioco al ribasso che ha annacquato la ragione unica della furia Brexit: la sovranità. E’ l’accordo migliore che la May potesse negoziare, ma è anche la dimostrazione del fatto che il problema della Brexit è la Brexit stessa, che uscire dall’Ue non è facile e anzi è controproducente per l’interesse nazionale – e infatti per farlo Londra deve rimanere con un piede dentro (l’Unione doganale) e replicare di fatto le regole esistenti. Una copia sgualcita dell’Europa: ecco perché i falchi si sentono traditi, ecco perché i remainers dicono che non ha alcun senso uscire dall’Ue per creare un rapporto che replica l’esistente, ma è più fragile, più controverso, più attaccabile.

 

Il governo ha ripetuto per diciotto mesi che il suo unico obiettivo era eseguire il mandato popolare del referendum del 2016 e ogni interferenza della democrazia rappresentativa – il Parlamento – è stata vissuta come un oltraggio, e maltrattata in ogni modo. Ora tutto si gioca lì, nel Parlamento che si ritrova di fatto compatto contro la May. La quale, uscendo dalla porta di Downing Street due sere fa, ha detto chiaramente com’è la questione: o accettate il mio piano, o vi prendete il “no deal” (ipotesi da fine di mondo), o non c’è la Brexit. Che è esattamente il quesito che il mondo del People’s Vote vuole sottoporre agli inglesi, per sostituire al mandato popolare del 2016 quello – più circostanziato – del 2018. La May non vuole il referendum, così come non lo vuole Corbyn, che ambisce a nuove elezioni ma si trova nella posizione piuttosto stramba di poter salvare il deal, visto che lui stesso aveva detto che ad alcune condizioni – e le condizioni ci sono – avrebbe dato il suo appoggio al negoziato con Bruxelles. Ma per una questione esistenziale com’è la Brexit, il popolo che l’ha voluta forse è l’unico che può dire se anche così, stropicciata per i sovranisti e pericolosa per gli altri, è comunque da fare. Il rischio di finire con un “no deal” è altissimo, e i più cauti dicono che forse è il caso di combattere per il piano della May, che con quei suoi tempi laschi potrebbe addirittura portare a una no-Brexit di fatto. Ma al Parlamento i cauti sono pochi, e la conta pare tragicamente contraria alla May, per non parlare del continuo svilimento che le impongono i suoi ministri con le loro verbose lettere di dimissioni.

 

Il mandato popolare costringe i politici alla responsabilità, ma c’è anche un’ipotesi realista. E’ quella greca, che fu applicata da Alexis Tsipras nel 2015: minacciò la Grexit, fece il referendum che bocciò il memorandum europeo e poi accettò tutto quel che l’Europa chiedeva, l’esatto contrario di quanto aveva chiesto il popolo, e cacciò i ministri riottosi. Sembra incredibile dover dire alla May di fare come i greci, ma anche questa è una dimostrazione concreta dell’indicibile: uscire dall’Ue non conviene proprio.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi