Il presidente francese Emmanuel Macron al centenario della prima guerra mondiale (Foto LaPresse)

Contro i nemici dell'europa

Emmanuel Macron

Macron tiene viva la memoria della Grande Guerra, ricorda che il patriottismo non è nazionalismo e che sono i valori comuni che fanno la pace. Per questo vanno difesi

Pubblichiamo il discorso che il presidente francese ha tenuto domenica per celebrare i cent’anni dall’Armistizio di Compiègne, che pose fine alla Prima guerra mondiale.

Il 7 novembre del 1918, quando il caporale Pierre Sellier lanciò il primo cessate-il-fuoco, verso le 10 di mattina, molti uomini inizialmente non riuscivano a crederci, poi lentamente uscirono dalle loro postazioni, mentre da lontano, sulle prime linee, le trombe ripetevano il cessate il fuoco e le campane diffondevano la notizia per tutto il paese.

Vincitori e vinti furono immersi a lungo nello stesso lutto. 1918: sono passati cent’anni. Quanto sembra lontano. Eppure era ieri 

L’11  novembre del 1918, alle 11 del mattino, cent’anni fa, giorno dopo giorno, ora dopo ora, a Parigi come in tutta la Francia suonarono le trombe e tutte le campane delle chiese. Era stato firmato l’armistizio. Era la fine di quattro lunghi e terribili anni di combattimenti mortali. L’armistizio non voleva dire pace. E nell’est per diversi anni continuarono guerre tremende. Qui, in quello stesso giorno, i francesi e i loro alleati celebrarono la loro vittoria. Si erano battuti per la patria e per la libertà. In nome di questi valori avevano tollerato ogni genere di sacrificio, e ogni sofferenza.

Dobbiamo prenderci un istante per farci tornare alla mente questa immensa processione di combattenti, i cortei dei soldati delle città e dell’impero, dei legionari e dei garibaldini, degli stranieri che erano venuti dal mondo intero perché per loro la Francia rappresentava tutto ciò che c’era di bello al mondo. Assieme a Peugeot, il primo caduto, e a Trébuchon, l’ultimo morto per la Francia dieci minuti prima della firma dell’armistizio, ecco Kléber Dupuy, difensore di Douaumont, Apollinaire, Blaise Cendrars al reggimento in marcia della legione straniera, i soldati dei reggimenti baschi, bretoni o marsigliesi, il capitano De Gaulle che allora nessuno conosceva, Julien Green, l’americano, davanti alla sua ambulanza, Montherlant e Giono, Charles Péguy e Alain Fournier morti nelle prime settimane, Joseph Kessel venuto da Orenbourg in Russia.

E di tutti gli altri – tutti gli altri che sono nostri, perché apparteniamo anche a loro – possiamo leggere i nomi su ogni monumento, dalla Corsica, dalle valli alpine, dalla Sologne ai Vosgi, dalla punta del Raz alla frontiera spagnola. Sì, un’unica Francia, rurale e urbana, borghese, aristocratica, di tutti i colori, i preti e gli anticlericali che hanno sofferto fianco a fianco: siamo fatti del loro eroismo e del loro dolore.

 

Durante quei quattro anni, l’Europa è riuscita a non suicidarsi. L’umanità era sprofondata in un odioso labirinto di scontri spietati, in un inferno che inghiotte tutti i combattenti, qualunque sia la loro nazionalità o la loro provenienza. All’indomani, il giorno dopo l’armistizio, iniziò la conta funebre dei morti, dei feriti, dei mutilati, dei dispersi. Qui in Francia, ma anche negli altri paesi, per mesi molte famiglie hanno atteso invano il ritorno di un padre, un fratello, un marito, un fidanzato, e tra gli assenti c’erano anche quelle donne ammirevoli impegnate a curare i combattenti.

10 milioni di morti.

 

6 milioni di feriti e mutilati.

 

3 milioni di vedove.

 

6 milioni di orfani.

 

milioni di vittime civili

 

1 miliardo di proiettili sparati soltanto sul suolo francese.

Rovinare la speranza per il futuro facendoci ammaliare dal ritiro, dalla violenza e dal dominio sarebbe un errore storico 

 

Il mondo scoprì quanto profonde erano le ferite che l’ardore della guerra aveva nascosto. Dopo le lacrime dei morenti, arrivarono quelle dei sopravvissuti. Perché su questo suolo di Francia era venuto a combattere il mondo intero. Giovani da tutte le province e da oltreoceano, giovani dall’Africa, dal Pacifico, dalle Americhe e dall’Asia sono venuti a morire lontani dalle loro famiglie in villaggi di cui non conoscevano nemmeno il nome. Milioni di testimoni di tutte le nazioni raccontavano l’orrore dei combattimenti, il fetore delle trincee, la desolazione dei campi di battaglia, le grida dei feriti nella notte, la distruzione di una fiorente campagna in cui rimaneva soltanto la sagoma carbonizzata degli alberi. Molti di quelli che sono rientrati hanno perduto la loro gioventù, i loro ideali, la voglia di vivere. Molti erano sfigurati, ciechi, amputati. Vincitori e vinti furono immersi a lungo nello stesso lutto.

 

1918, sono passati cent’anni. Quanto sembra lontano. Eppure era ieri. Ho visitato le terre della Francia dove si sono verificati i combattimenti più duri. Ho visto in queste campagne la terra ancora grigia e sempre arida dei campi di battaglia. Ho visto i villaggi distrutti che non avevano abitanti per ricostruirli e che sono ancora la testimonianza pietra per pietra della follia degli uomini. Ho visto sui nostri monumenti gli elenchi dei nomi di francesi che si sfiorano con i nomi di stranieri morti sotto il sole della Francia; ho visto i corpi dei nostri soldati seppelliti sotto una natura che è tornata innocente, come avevo visto nelle fosse comuni, le ossa dei soldati tedeschi e dei soldati francesi vicine, soldati che si sono uccisi, in un gelido inverno, per pochi metri di terra.

 

Le tracce di questa guerra non si sono mai cancellate dalle terre della Francia, né da quelle dell’Europa e del medio oriente né dalla memoria degli uomini di tutto il mondo. Dobbiamo ricordare, non possiamo dimenticare. Perché il ricordo di questi sacrifici ci esorta a essere degni di coloro che sono morti per noi, affinché possiamo vivere liberi.

 

Dicendo “prima i nostri interessi e cosa ci importa degli altri” cancelliamo ciò che una nazione ha di più prezioso: i suoi valori morali

Ricordiamo: non priviamoci di quella purezza, di quegli ideali, di quei princìpi superiori del patriottismo dei nostri anziani. La visione della Francia come nazione generosa, della Francia come progetto, della Francia che porta valori universali, era in quelle ore oscure esattamente l’opposto dell’egoismo di un popolo che guarda soltanto ai propri interessi. Perché il patriottismo è l’esatto contrario del nazionalismo: il nazionalismo ne è il tradimento. Dicendo “prima i nostri interessi e cosa ci importa degli altri” cancelliamo ciò che una nazione ha di più prezioso, ciò che la fa vivere, ciò che la porta a essere grande, ciò che è più importante: i suoi valori morali.

 

Ricordiamoci, noi francesi, che Clemenceau proclamò il giorno della vittoria, cento anni fa, dalla tribuna dell’Assemblea nazionale, prima che nell’aula scoppiasse un coro senza precedenti che cantava la Marsigliese: un combattente del diritto, un combattente della libertà, la Francia sarà sempre e per sempre il soldato dell’ideale.

 

Sono questi valori e queste virtù che hanno sostenuto coloro che onoriamo oggi, che si sono sacrificati nelle lotte in cui la nazione e la democrazia li avevano coinvolti. Sono questi valori, queste virtù che hanno fatto la loro forza e hanno guidato il loro cuore. La lezione della Grande Guerra non può essere quella del rancore di un popolo contro gli altri, né quella di dimenticare il passato. Questo passato ci costringe a pensare al futuro e a pensare all’essenziale.

 

Dal 1918, i nostri predecessori hanno cercato di costruire la pace, hanno immaginato la prima cooperazione internazionale, hanno smantellato imperi, riconosciuto molte nazioni e ridisegnato i confini; hanno persino sognato un’Europa politica. Ma l’umiliazione, lo spirito di vendetta, la crisi economica e morale hanno alimentato l’ascesa del nazionalismo e del totalitarismo. La guerra di nuovo, venti anni dopo, venne a devastare le strade della pace.

La pace si chiama Unione europea, un’unione liberamente accettata, mai vista nella storia e che ci ha liberato dalle guerre civili

 

Qui, oggi, i popoli di tutto il mondo, su questa sacra sepoltura del nostro Milite Ignoto, questo anonimo simbolo di tutti quelli che muoiono per la patria, qui oggi ci sono tanti leader radunati. Ognuno di loro guida la sua lunga coorte di combattenti e martiri. Ognuno di loro è il volto della speranza per la quale tutti i giovani hanno accettato di morire, quella di un mondo finalmente restituito alla pace, di un mondo in cui l’amicizia tra i popoli prevale sulle passioni bellicose. Un mondo in cui la parola degli uomini deve risuonare più forte dello scontro armato, dove lo spirito di conciliazione prevale sulla tentazione del cinismo, dove vertici e incontri permettono ai nemici di ieri di impegnarsi nel dialogo per renderlo il cemento della comprensione, il pegno di un’armonia finalmente possibile.

 

Questa è, nel nostro continente, l’amicizia forgiata tra Germania e Francia e il desiderio di costruire una base di ambizioni comuni. Si chiama Unione europea, un’unione liberamente accettata, mai vista nella storia e che ci ha liberato dalle nostre guerre civili. Si chiama Nazioni Unite, garante di uno spirito di cooperazione per difendere i beni comuni di un mondo il cui destino è indissolubilmente legato e che ha imparato le lezioni dei dolorosi fallimenti della Società delle Nazioni e del Trattato di Versailles. E’ la certezza che il peggio non può mai accadere finché ci sono uomini e donne di buona volontà. Cerchiamo di essere incessantemente, senza vergogna, senza paura, donne e uomini di buona volontà.

 

Lo so, i vecchi demoni riaffiorano, pronti a compiere il loro lavoro di caos e morte. Le nuove ideologie manipolano le religioni, sostengono un contagioso oscurantismo. La storia a volte minaccia di riprendere il suo tragico corso e compromettere il nostro retaggio di pace, che credevamo fosse stato definitivamente sigillato dal sangue dei nostri antenati.

 

Possa questo anniversario essere il giorno in cui si rinnova la fedeltà eterna ai nostri morti. Facciamo ancora una volta il giuramento di porre la pace sopra ogni cosa, poiché ne conosciamo il prezzo, ne conosciamo il peso, ne conosciamo le esigenze. Tutti noi qui, leader politici, dobbiamo, oggi 11 novembre 2018, riaffermare di fronte ai nostri popoli la nostra vera, immensa responsabilità, quella di trasmettere ai nostri figli il mondo che le generazioni prima avevano sognato.

 

Aggiungiamo le nostre speranze invece che opporre le nostre paure. Insieme possiamo evitare le minacce dello spettro del riscaldamento globale, della povertà, della fame, delle malattie, della disuguaglianza, dell’ignoranza. Abbiamo iniziato questa lotta e possiamo vincere: continuiamo perché la vittoria è possibile.

 

Insieme, possiamo spezzare “il tradimento degli intellettuali” che è all’opera, e nutre le falsità, accetta le ingiustizie che minano i nostri popoli, alimenta gli estremi e l’oscurantismo contemporaneo. Insieme possiamo far emergere la straordinaria fioritura della scienza, dell’arte, del commercio, dell’istruzione, della medicina che vedo ovunque nel mondo perché il nostro mondo è, se lo vogliamo, l’alba di una nuova epoca, di una civiltà che porta al massimo le ambizioni e le facoltà dell’uomo.

 

Rovinare questa speranza facendoci ammaliare dal ritiro, dalla violenza e dal dominio sarebbe un errore che le generazioni future ci addebiteranno giustamente come una responsabilità storica. Qui, oggi, affrontiamo con dignità il giudizio del futuro. La Francia sa cosa deve ai suoi combattenti e a tutti i combattenti del mondo. Si inchina alla loro grandezza. La Francia celebra con rispetto e serietà le morti delle altre nazioni contro le quali una volta combatteva. “Dal suolo che racchiude i morti, i nostri piedi non si staccano che invano”, scrisse Guillaume Apollinaire. Che sulle tombe dove riposano, fiorisca la certezza che un mondo migliore è possibile se lo vogliamo, se lo decidiamo, se lo costruiamo, se lo richiediamo con tutta l’anima.

 

L’11 novembre 2018, cento anni dopo un massacro la cui cicatrice è ancora visibile sulla faccia del mondo, vi ringrazio per questo raduno della comunità che si è ritrovata dopo l’11 novembre 1918. Possa questo incontro non essere solo un giorno. Questa comunità, amici miei, ci invita a fare insieme l’unica lotta che vale la pena combattere: la lotta per la pace, la lotta per un mondo migliore.

 

Viva la pace tra i popoli e tra gli stati.

 

Lunga vita alle nazioni libere del mondo.

 

Lunga vita all’amicizia tra i popoli.

 

Lunga vita alla Francia.

Traduzione di Paola Peduzzi

Di più su questi argomenti: