Agricoltori trapiantano piantine di riso nei campi nella regione di Bago, Myanmar, agosto 2017 (foto LaPresse)

Quant'è difficile il libero commercio nell'èra sovranista. Storie asiatiche

Sara Perria

Ecco perché il ministero dello Sviluppo economico italiano, insieme con Confagricoltura e all’Ente Nazionale Risi, plaudono alla reintroduzione delle sanzioni in Cambogia e Myanmar

Londra. Fra l’Asia e Bruxelles c’è una storia che intreccia pagine di crisi umanitarie e sanzioni economiche con il riso italiano. Il tutto ha inizio con la svolta in senso democratico di Cambogia prima e Myanmar dopo, e la volontà dell’Unione europea di sostenere la crescita dei due paesi favorendo i rapporti di scambio con il Vecchio continente. La ratio è che lo sviluppo economico aiuta il cammino verso più solide e sane istituzioni – con il bonus di produrre vestiti a basso costo. A suon di democrazia ed H&M, nasce così l’accordo preferenziale Everything But Arms (Eba), “Tutto Fuorché Armi”: via i dazi dai prodotti provenienti dai due paesi asiatici in via di sviluppo, prevalentemente tessili, lasciando nell’equazione solo l’embargo sulle armi. È, nella pratica, la fine delle sanzioni. Evviva.

   

Anzi no: passano solo pochi anni e l’assunto iniziale è già crollato. L’opposizione cambogiana viene de facto eliminata, le elezioni che quest’anno riconfermano Hun Sen vengono considerate truccate. E le notizie dal Myanmar sono ancora più dure. Con l’Eba ancora in corso, un dossier di una missione Onu di agosto invita la Corte penale internazionale ad avviare un’indagine sugli alti gradi dei militari birmani per genocidio ai danni della minoranza Rohingya. Così, all’inizio di ottobre, l’Unione annuncia improvvisamente di aver avviato la procedura per la revoca delle tariffe preferenziali per la Cambogia, cui potrebbe far seguito il Myanmar. La decisione appare giustificata dal vincolo del rispetto delle convenzioni internazionali sui diritti umani ma, con l’Euro-Asia Summit in corso a Bruxelles, è probabile diventi uno dei molti nervi scoperti, nonostante la dichiarata volontà di contrastare la politica di chiusura di Trump. La Ue ha messo la questione dei diritti umani in Myanmar all’ordine del giorno del Summit. Eppure contro la revoca dell’Eba si sono schierati pressoché tutti fra analisti, commentatori internazionali, società civile birmana, giornalisti in entrambi i paesi.

     

“Tutto fuorché Buonsenso” è il titolo di copertina del settimanale birmano in lingua inglese Frontier, secondo cui revocare l’accordo “è un esempio da manuale di sanzioni nella direzione sbagliata, ovvero quelle che non hanno pressoché alcun effetto sui diretti responsabili delle sofferenze in Rakhine.” A risentirne sarebbe solamente la popolazione più fragile, con la perdita di migliaia di posti lavoro e del miglioramento degli standard.

  

Ma a plaudere alla decisione c’è un osservatore inaspettato: il ministero dello Sviluppo Economico italiano, insieme con Confagricoltura e all’Ente Nazionale Risi. Il 70 per cento degli import dai due paesi riguardano sì il tessile, ma c’è anche la produzione agricola. Ed è il riso in particolare – di cui l’Italia è il maggiore produttore europeo – ad aver subìto le conseguenze delle tariffe privilegiate, a disparità di costi del lavoro e di onerosi requisisti ambientali.

   

Così a gennaio, il ministero dello Sviluppo Economico italiano, dopo una forte azione di lobby dell’Ente Nazionale Risi e di Confagricoltura, chiede all’Unione europea di aprire un’indagine per l’infrazione della clausola di salvaguardia della produzione europea contenuta nell’accordo preferenziale, valido fino a che non danneggi la produzione europea. La Ue fa partire l’indagine a marzo e, spiega un portavoce, “è ancora in corso”.

   

“E’ dal 2013 che l’Ente Risi sostiene che [questo tipo di] concessioni unilaterali sottraggono quote di mercato”, spiega il presidente dell’Ente Nazionale Risi Paolo Carrà. Secondo i dati contenuti anche nel fascicolo consegnato all’Unione europea, l’import di riso avrebbe portato l’Italia a dimezzare in soli tre anni la superficie coltivata con la varietà ‘Indica’, con una contrazione della produzione totale di riso di oltre il 10 per cento. Costretti a convertire i campi al più diffuso ‘Japonica’, i prezzi si sono notevolmente contratti, proprio mentre il riso cambogiano, costando un 30 per cento in meno, finirebbe per avere prezzi inferiori del costo di produzione del riso italiano. Senza contare, aggiunge Carrà, che spesso non si aiutano contadini poveri, ma triangolazioni commerciali che ‘passano’ per questi paesi per sfruttare le tariffe agevolate.

 

La procedura per la verifica delle violazioni dei diritti umani come condizione per le tariffe agevolate, annunciata dal commissario europeo per il commercio Cecilia Malmstrom, va così a sostegno di questa preesistente indagine avviata dall’Unione europea già a marzo, sulla cosiddetta ‘clausola di salvaguardia’ della produzione europea.

 

Se i rohingya hanno smesso di sognare una missione di peace keeping dell’Onu, la questione dei dazi sovrappone inevitabilmente interessi umanitari e commerciali – le tariffe agevolate del tessile, a differenza del riso, in fondo convengono a tutti. E infatti Carrà ribadisce che le due indagini sono separate, anche perché “ben venga la questione dei diritti umani, ma segue un altro canale, che ha tempi molto più lunghi”.