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Aung San Suu Kyi è ancora un argine al restauro della dittatura in Birmania?

Giulia Pompili

Il premio nobel ha difeso la decisione della corte di Yangon che ha condannato a sei anni di carcere due giornalisti di Reuters

Roma. La leader de facto del Myanmar, il premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, ieri nel corso di un incontro del World Economic Forum ad Hanoi ha difeso la decisione della corte di Yangon che ha condannato a sei anni di carcere due giornalisti di Reuters. “Non sono stati arrestati perché sono giornalisti, ma perché il tribunale ha deciso che hanno violato la Official Secrets Act”, una legge che era stata introdotta nel 1923, quando il Myanmar ancora si chiamava Birmania ed era una provincia dell’impero anglo-indiano. L’articolo 3 della legge proibisce l’acquisizione di immagini di “luoghi proibiti” e la detenzione di documenti ufficiali segreti che “potrebbero essere o sono destinati a essere, direttamente o indirettamente, utili per il nemico”. “Il processo si è tenuto in un tribunale pubblico”, ha detto Suu Kyi, “se qualcuno crede che ci sia stato un errore giudiziario, vorrei che lo segnalasse”. E’ quindi sfumata l’ipotesi che la Signora, ormai da tempo abbandonata dall’occidente quale simbolo della Birmania perseguitata che cercava la democrazia, possa concedere la grazia a Wa Lone, reporter di 31 anni, e Kyaw Soe Oo, di 27.

 

I due giornalisti sono stati arrestati il 12 dicembre del 2017 in un’imboscata – erano stati invitati a parlare con alcuni ufficiali militari del Myanmar sui quali investigavano – ma erano tenuti d’occhio da tempo per via del loro lavoro. Reuters infatti già da qualche mese aveva trovato le prove della responsabilità dei militari – cioè coloro che governo davvero il Myanmar, agli ordini del generale Min Aung Hlaing – nella persecuzione della minoranza musulmana dei rohingya nello stato occidentale del Rakhine. Aung San Suu Kyi ieri ha detto anche che “la situazione nel Rakhine non poteva essere gestita meglio”, negando evidentemente non solo i reportage giornalistici, ma anche il rapporto delle Nazioni Unite pubblicato a fine agosto nel quale i militari del Myanmar sono accusati di “gravi e accertati crimini che violano le leggi internazionali” contro la minoranza rohingya (“i militari hanno ucciso indiscriminatamente, violentato donne e bambini, bruciato interi villaggi”, e ci sono prove dell’“intenzione di commettere un genocidio”, si legge nel report, redatto sulla base delle dichiarazioni di 875 testimoni). “Crediamo che per garantire sicurezza e stabilità sul lungo periodo dobbiamo essere imparziali da tutti i punti di vista. Non possiamo decidere chi proteggere e chi no nello stato di diritto”, riferendosi alle aggressioni subìte dalle Forze armate da parte dei rohingya, spesso infiltrati da gruppi terroristici armati.

 

Amnesty international ieri ha definito “vergognosa” la difesa della condanna dei due giornalisti di Reuters, e in effetti è difficile trovare un modo più maldestro per difendere l’indifendibile. Il problema, però, è un altro: le anime belle dell’occidente post coloniale avevano trasformato la Signora in un simbolo della pace e del processo democratico in Myanmar, senza mai analizzare con più profondità le dinamiche di un paese che ancora oggi fatica a liberarsi dai legacci della dittatura. Fino a poco tempo fa, quando le organizzazioni per i diritti umani chiedevano le dimissioni di Suu Kyi o almeno la riconsegna del Nobel per la Pace, avevamo difeso la realpolitik con la quale stava affrontando le complicate criticità di un paese diviso da conflitti etnici e religiosi – in una famosa intervista di qualche mese fa alla giapponese Nhk la Signora aveva spiegato che “quello dei rohingya è un problema che va avanti da un paio di secoli. Non puoi risolvere in pochi mesi una questione così, e pochissime persone fuori dal Myanmar conoscono bene la situazione. Non solo il mondo esterno, ma anche i nostri concittadini hanno bisogno di capire”. Parole condivisibili. Il problema, però, è prestare il volto gentile a quella che sta assumendo sempre di più i tratti di una nuova dittatura militare, brutale e selvaggia, proprio come quella che ha tenuto agli arresti domiciliari Aung San Suu Kyi per oltre vent’anni. Il massacro dei rohingya è avvenuto in Myanmar, così come l’arresto di due giornalisti che svolgevano il loro lavoro, dipendenti di un’agenzia di stampa tra le più autorevoli al mondo. Sono fatti che non possono essere ignorati. Da una perseguitata politica, seppure scesa in politica – con tutti i compromessi che si fanno in questi casi – avremmo voluto ascoltare parole diverse.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.