Hun Sen al seggio durante le elezioni in Cambogia (foto LaPresse)

L'Asia illiberale e il modello-Cambogia che l'occidente non capisce

Massimo Morello

Alle elezioni di domenica l’autocrate Hun Sen ha stravinto (di nuovo). Che cosa ci dicono i dati sull’affluenza

Milano. “Per capire bisogna vivere nei villaggi come il mio, dove i problemi sono l’acqua, la scuola, le medicine. Qui non c’interessa quello che si dice nei salotti buoni dell’occidente”, dice al Foglio Claudio Bussolino, ex dirigente del Partito comunista italiano, arrivato in questo paese nel 1979, al seguito delle truppe vietnamite che posero fine al regime dei khmer rossi. Da allora ha scelto di vivere come un cambogiano: solo così, secondo lui, è possibile comprendere un paese cui sembra negata la possibilità di essere normale.

 

Le elezioni generali di domenica scorsa sembrano l’ultima manifestazione di questa distonia storica e culturale. Secondo i primi dati parziali sono state vinte con l’80 per cento dei voti dal partito al governo, il Cambodian People’s Party (Cpp) del primo ministro Hun Sen, in carica dal 1985. Secondo la quasi totalità degli osservatori occidentali la vittoria era scontata, poiché il maggior partito d’opposizione, il Cambodia National Rescue Party (Cnrp), è stato sciolto nel novembre scorso con l’accusa di essere al centro di una cospirazione per rovesciare il governo, il suo leader incarcerato, molti dei suoi dirigenti costretti a rifugiarsi all’estero. Operazione che è stata spiegata col risultato del Cnrp alle elezioni del 2013, che sembrava minacciare il predominio del Cpp di Hun Sen.

 

Se la vittoria era scontata, quindi, il vero test sarebbe stata l’affluenza alle urne: i rappresentanti dell’opposizione in esilio, sostenuti in diversi modi e forme dai media, dalle ong e dalle istituzioni europee e americane, quindi, hanno invitato a un’astensione di massa. Che è rimasta inascoltata: alle elezioni di domenica è andato a votare l’82,17 per cento degli aventi diritto, cioè il 13,67 per cento in più delle precedenti elezioni del 2013. “I cambogiani hanno reagito, si sono profondamente arrabbiati per questa campagna per l’astensionismo, che hanno vissuto come un’interferenza straniera. I cambogiani sentono le elezioni come qualcosa che riguarda loro” spiega Bussolino. Anche per questo, tuttavia, l’occidente ha dato una giustificazione: l’affluenza di massa sarebbe motivata dalle minacce contro chi non avesse votato e dalle lusinghe per chi l’avesse fatto. Premio o pena sarebbero stati comminati nel caso in cui non fosse comparso il segno dell’inchiostro sulle dita, a dimostrazione del voto. Pur essendo una pratica diffusa in tutta l’area – nelle elezioni birmane del 2015 era chiamato con orgoglio il “finger bullett”, il dito proiettile che aveva colpito i militari – in questo caso è stata presentata come un sistema di controllo.

 

I rappresentanti dell’opposizione in esilio, sostenuti in diversi modi e forme dai media, dalle ong e dalle istituzioni europee e americane, hanno invitato a un’astensione di massa. 

 

Nel frattempo, è come se la Cambogia continuasse a essere una pedina in un grande gioco di propaganda tra oriente e occidente. “La Cambogia è come una bella ragazza cui fanno la corte l’ovest e l’est”, ha dichiarato Sok Eysan, portavoce del Cpp. “Il miliardario occidentale ha sempre posto delle condizioni affinché questa ragazza abbandonasse le proprie tradizioni… Il miliardario dell’est, invece, rispetta e condivide gli usi e i costumi di questa ragazza”. Ecco perché la Cambogia avrebbe fatto la propria scelta cadendo tra le braccia dell’est. Ed ecco perché l’occidente esprime la propria “gelosia” con tanto rancore. E’ un’immagine un po’ ingenua della geopolitica asiatica, funzionale alla maggioranza della popolazione cambogiana, ma che ben sintetizza l’attuale confronto tra Cina e America nello scacchiere asiatico. “I cinesi si stanno prendendo la Cambogia, ma lo fanno con rispetto”, dice Bussolino. Grazie al sostegno cinese, la Cambogia ha segnato uno sviluppo costante del 7 per cento annuo.

 

E’ importante ricondurre il significato e le analisi di queste elezioni al periodo in cui il sud-est asiatico era al centro dello scontro tra occidente libero e comunismo, allora incarnato soprattutto dall’Unione Sovietica. Il peccato originale di Hun Sen non è l’essere stato un giovane ufficiale degli khmer rossi, ma di essere passato ai vietnamiti, che da poco avevano sconfitto gli americani, e aver partecipato con loro alla liberazione del suo paese dal dominio dell’Angka, l’Organizzazione, di Pol Pot. Tra il 1979 e il 1991 i khmer rossi furono sostenuti contro i vietnamiti da Thailandia, Cina e America, e fu allora che per gli americani Hun Sen divenne un comunista. Tale è rimasto per molti osservatori e politologi occidentali, nonché per i rifugiati cambogiani all’estero (per certi versi paragonabili ai profughi cubani negli Usa), che continuano a sognare il ritorno ai tempi d’oro degli anni Sessanta, quando Phnom Penh era la Parigi del sud-est asiatico.

 

In realtà Hun Sen ha seguito il percorso segnato dalla Cina e dal Vietnam (tanto simili da non poter essere alleati), che hanno trasformato il comunismo in un sistema che coniuga sviluppo economico e controllo politico in nome dei “valori asiatici” contrapposti a quelli occidentali. In assenza di una struttura complessa come i partiti comunisti cinese e vietnamita, però, Hun Sen è anche divenuto uno dei nuovi mostri dell’Asia, condividendo con Aung San Suu Kyi il primato di accuse di violazione dei diritti umani da parte delle organizzazioni non governative occidentali. La loro posizione nei confronti del governo di Hun Sen è però cambiata solo dopo il varo di una legge che cerca di controllarne la diffusione e soprattutto distinguere quelle che sono divenute società a scopo di lucro o sono finanziate da società estere. Ancora una volta, insomma, la Cambogia diviene una riserva di caccia per storie torbide. Uno scenario dello Sbaek Thom, il teatro delle ombre dove ogni storia ne nasconde un’altra e dove diventa sempre più difficile distinguere l’una dall’altra.

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