Mahathir Mohamad (foto LaPresse)

In Malaysia ha vinto il “Grande Vecchio” con una coalizione di nemici

Massimo Morello

Mahatir Mohamad ha 92 anni, è il primo ministro più anziano del pianeta. Era già stato al governo fino al 2003, ora la sua elezione è simbolo di una ribellione tutta interna al vecchio mondo

“Tribalismo”. È una nuova categoria politica che sembra segnare una rinascita della Storia dopo la fine annunciata da  Fukuyama. Ma è anche la conferma della tesi del politologo americano: il corso della storia si dirama in rivoli di storie in cui confluiscono le credenze, vere o false che siano, di diversi gruppi di persone. Il tribalismo si è manifestato in tutta la sua complessità, quasi incomprensibile a una logica razionale, nelle elezioni in Malaysia che si sono svolte mercoledì 9 maggio.

 

Ha vinto a sorpresa, soprattutto degli osservatori occidentali, il Pakatan Harapan (Ph), l’Alleanza della Speranza, coalizione guidata da Mahathir Mohamad, “Grande Vecchio” della politica malese: ha governato per 22 anni, si è ritirato a 78 e oggi, a 92, diventa il più anziano primo ministro del pianeta. Il grande sconfitto è Najib Razak, 64 anni, premier dal 2009, a capo della United Malays National Organisation (Umno), il maggior partito della coalizione Barisan Nasional (Bn), il Fronte Nazionale. L’Umno ha governato il paese per 61 anni, sin dall’indipendenza dalla Gran Bretagna, anche grazie al sistema di potere stabilito da Mahathir, che dell’Umno è stato il deus ex-machina sino al 2016, quando ha abbandonato la coalizione per “l’imbarazzo” creatogli dal suo delfino, Najib Razak, al centro di uno scandalo di distrazione di fondi e corruzione.

 

La corruzione, la cleptocrazia, sono sicuramente tra le cause della sconfitta di Najib. Ma la ragione più profonda sta nel carisma di Mahathir, che è riuscito a far confluire nella sua Alleanza molte delle “tribù” che compongono il domino etnico e sociale malese. “Non si è mai verificato in precedenza un tale allineamento dei gruppi malesi” ha commentato John Funston, collaboratore dell’Institute of Southeast Asian Studies di Singapore. I malay, innanzitutto, ossia la popolazione autoctona convertita all'Islam dai mercanti arabi (su 32 milioni di abitanti, il 69 per cento è composto da malay e bumiputra, i figli della terra, gli indigeni), tanto che il successo di Mahathir è stato definito uno “Malay Tsunami”. Ma persino molti sino-malesi (il 24 per cento), nonostante il nuovo premier abbia preso le distanze da Pechino, che vedono aumentare le diseguaglianze tra loro e le élite economiche della Malaysian chinese association (Mca), beneficiate dagli accordi con la Repubblica popolare stabiliti da Najib. Mahathir ha conquistato anche i musulmani moderati, che hanno preso le distanze dai gruppi fondamentalisti cui aveva fatto appello Nahjib. Questi ultimi, in gran parte rappresentati dal Parti Islam Se-Malaysia (Pas), il Partito islamico pan malaysiano, invece, hanno scelto di correre da soli e hanno ottenuto la vittoria in alcune circoscrizioni elettorali. Vittoria che avrà un sicuro impatto nel prossimo governo: “Non potranno ignorare i gruppi che chiedono l’applicazione dell’hulul” ha dichiarato Norshahril Saat, dell’Institute of Southeast Asian Studies riferendosi alle punizioni comminate secondo la sharia. Il che può essere un grosso problema, considerando che Mahathir ha già designato come successore a breve termine Anwar Ibrahim, un suo ex vice-premier. Anwar, infatti, che dal 2008 era a capo dell’opposizione del governo Najib, nel 2015 è stato condannato a cinque anni di carcere per sodomia.

 

L’hulul è solo uno dei problemi che dovrà affrontare Mahathir per accordare le tribù riunite nella sua alleanza, “una coalizione di nemici” com’è stata definita. Secondo alcuni Mahathir potrà riuscirci a condizione di diminuire le diseguaglianze sociali, le tasse, il costo della vita. In questo caso potrebbe rivelarsi l’uomo che ha posto freno alla deriva autoritaria che sta dilagando in Asia. Ma anche questa appare l’ennesima illusione della “Tribù dei creduloni”. Sia per la storia personale di Mahathir, che si è sempre presentato come l’uomo forte e nel suo ultimo mandato è stato artefice di una durissima repressione contro i dissidenti, sia per lo scenario geopolitico. “In un certo senso appare come se i vecchi poteri stiano contestando i vecchi poteri” ha commentato Khoo Ying Hooi della University of Malaya.

 

Prossime elezioni nel sud-est asiatico

 

Le elezioni in Malaysia, dunque, andrebbero analizzate “oltre la facciata”, come suggerisce il titolo di un saggio di Lee Morgenbesser, specialista in studi asiatici dell’australiana Griffith University: “Behind the Facade: Elections under Authoritarianism in Southeast Asia”. Secondo Morgenbesser, l’istituzionalizzazione delle elezioni in questa parte di mondo fornisce un valore aggiunto ai dittatori e alle élite politiche, è un modo di sopravvivere adattandosi alle circostanze, un sistema legale per mantenere o conquistare il potere. Ciò accade perché il contesto o le condizioni in cui si svolgono le elezioni non sono sufficientemente mature per la democrazia.

Nei prossimi mesi si giudicherà se questa tesi è valida anche in Malaysia. Poi, il 29 giugno, sarà la volta delle elezioni in Cambogia, dove si tratterà letteralmente di “elezioni senza scelta” (come già accade in Vietnam e Laos): il primo ministro Hun Sen, infatti, ha praticamente dissolto il maggior partito d’opposizione e la libertà di stampa. Il suo obiettivo, a quanto pare, è utilizzare le elezioni come mezzo per legittimare l’autocrazia e, in seguito, cedere il potere a un suo familiare. Nel 2019 sono previste altre due elezioni da osservare “oltre la facciata”. Le prime dovrebbero svolgersi in Thailandia, molto probabilmente nel febbraio 2019 (salvo ulteriori rinvii). Il governo militare che ha preso il potere nel maggio 2014, dopo una modifica costituzionale che dovrebbe assicurargli il potere, sembra puntare a una forma che è stata definita di “dittatura costituzionale” che potrebbe essere sancita dalle urne.

 

Nell’aprile 2019, poi, si svolgeranno le elezioni in Indonesia, paese che era stato posto a esempio di come l’Islam si possa coniugare con la democrazia. Il presidente in carica Joko Widowo, già salutato come l’incarnazione del cambiamento, sta cercando l’appoggio dei militari e dell’establishment religioso per mantenere la carica. Il suo maggior avversario, l’ex generale Prabowo Subianto, pur non professandosi religioso, sembra sempre più allineato con i potenti gruppi islamisti e non nasconde le sue tendenze autocratiche. Nel 2020, infine, sarà la volta della Birmania. I militari si erano assicurati il potere con le modifiche costituzionali precedenti le elezioni del 2015, neutralizzando così la vittoria elettorale della National League for Democracy di Aung San Suu Kyi. Tra due anni, se continuerà l’opera di delegittimazione internazionale della Signora, probabilmente riusciranno a mantenere il potere anche “democraticamente”.

 

Tribalismo, autocrazia e populismo, dunque, sono i pilastri della nuova politica asiatica. Il rischio, secondo Joshua Kurlantzick, esperto di Sud-Est Asiatico del think tank americano Council on Foreign Relations, è che si inneschi un nuovo “domino asiatico” che esporti questo modello oltre i confini regionali e dei paesi in via di sviluppo. Già oggi, delle 15 nazioni col più alto reddito pro capite, circa due terzi sono non-democrazie.