I rifugiati di Rohingya al rifugio temporaneo in Bangladesh. Foto LaPresse/Reuters

Quando i Rohingya non erano di moda

Massimo Morello

Nelle accuse brutali contro Aung San Suu Kyi c'è tanta ipocrisia

"Non sono Madre Teresa, sono una politica”, ha dichiarato Aung San Suu Kyi. Ma per coloro che cercano un simbolo nella lotta tra bene e male era una santa, beatificata da una vita agli arresti per l’opposizione al regime birmano. E iconograficamente perfetta nella sua sottile figura fasciata dall’htamein, l’abito tradizionale femminile, nel volto austero addolcito da un fiore di frangipani tra i capelli che incarnava ogni stereotipo dell’orientalismo.

  

Per molti di loro, quell’aura di santità sembrano ora appassiti. Ciò che l’avrebbe corrotta è il potere conquistato nelle elezioni del 2015. Che nel frattempo siano stati liberati migliaia di prigionieri politici, che gli ex dissidenti siano potuti tornare in patria, che si sia avviato un reale processo per garantire le libertà civili, ormai appare irrilevante. Il potere, anche secondo molti ex dissidenti e molti giornalisti esteri che prima non potevano mettere piede in Birmania, l’avrebbe trasformata da perseguitata a persecutrice. Le sue vittime sono i Rohingya, minoranza musulmana stanziata nel nord del Rakhine, all’estremo ovest della Birmania, divenuti la nuova incarnazione dei “Dannati della terra” di Frantz Fanon, vate del terzomondismo. Aung San Suu Kyi, invece, appare come la responsabile, quantomeno complice, dell’ennesima ondata di violenze e persecuzioni cui sono soggetti i Rohingya. Il j’accuse è corale: premi Nobel per la pace come l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu o la pachistana Malala Yousafzai, ong, Onu. La petizione online per la revoca del Nobel per la pace assegnatole nel ’91 ha già raccolto quasi 400 mila firme. “Finora, Aung San Suu Kyi, che dirige de facto la Birmania, non ha fatto nulla per fermare questo crimine contro l’umanità nel suo paese”, si legge nella motivazione del promotore indonesiano. Proprio in questa motivazione c’è una delle tante fake news che compongono la vulgata più diffusa di questa storia. Aung San Suu Kyi è la leader de facto quale leader del partito di maggioranza. Ma il potere, de facto, resta in mano al Tatmadaw, le forze armate. Falsa anche la notizia che la Signora non abbia fatto nulla per risolvere la crisi. Lo scorso anno ha convocato una riunione d’emergenza dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico per discutere il problema e ha istituito una commissione dell’Onu per studiare altre soluzioni. Prima ancora Suu Kyi aveva condannato le violenze nei confronti delle minoranze musulmane. Tanto da guadagnarsi l’ostracismo di Ashin Wirathu, il volto del “terrore buddista”, a capo di un movimento che sta raccogliendo sempre più seguaci. Vero, invece, che la Signora abbia rigettato le accuse di genocidio e che si sia allineata con i militari. Ma questo, forse, è dovuto anche a ciò che ha definito un “enorme iceberg di disinformazione”.

   

Prova ne sono le foto diffuse su Twitter (anche) dall’intellettuale musulmano Tariq Ramadan: le immagini di cadaveri e disperazione, a quanto pare, sono state scattate qualche anno fa in Congo e in India. La disinformazione maggiore, tuttavia, è insita nella narrazione di questa storia, che si autoalimenta nell’estremismo umanitario e in un possibile progetto di “globalislamizzazione” culturale che si accompagna a quella finanziaria. Le radici del conflitto, invece, risalgono all’inizio dell’Ottocento, quando gli inglesi trasferirono in Birmania migliaia di lavoratori dal Bangladesh. Creando le basi per quella definizione di “immigrati illegali dal Bengala” che il governo birmano adotta per i Rohingya. E’ una lunga storia di cui i Rohingya sono sempre stati vittime, ma di cui si parlava ben poco, “quando i Rohingya non erano di moda”. Quando non erano utili. Sino a pochi anni fa, infatti, i Rohingya erano rifiutati anche da paesi musulmani come la Malaysia, l’Indonesia e il Bangladesh. I loro barconi erano divenuti le palline di un “ping pong” nel Mar delle Andamane. Oggi, mentre quei paesi materializzano l’ossimoro di un radicale islam moderato, sembrano manifestare maggior disponibilità all’accoglienza in nome della fede. Nel frattempo la disperazione degli “indesiderati del sud-est asiatico” ha generato la formazione di gruppi armati come l’Arakan Rohingya Salvation Army, che ad agosto ha attaccato oltre 25 postazioni militari e di polizia. Secondo molti analisti questi movimenti, guidati sul campo da Hafiz Atharullah, pachistano cresciuto in Arabia Saudita, possono contare su circa un migliaio di guerriglieri addestrati in Bangladesh da veterani dell’Afghanistan. Secondo un articolo dello Straits Times di Singapore, tra i militanti si potrebbero contare molti foreign fighters provenienti da Pakistan, Indonesia e Filippine. Non si può escludere che il Rakhine divenga una nuova frontiera dello Stato islamico, com’è accaduto nell’isola filippina di Mindanao, dove continuano i combattimenti (oscurati dalla crisi in Birmania).

  

Secondo Joshua Kurlantzick del Council on Foreign Relations, la crisi Rohingya “minaccia la stabilità di un governo ancora molto fragile”. Ma soprattutto la delegittimazione della Signora potrebbe spianare la strada a una vittoria dei militari nelle prossime elezioni. Che riuscirebbero così a riprendere il controllo assoluto del potere in modo democratico.

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