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I troll russi sono diventati reporter

Micol Flammini

La fabbrica dei troll di San Pietroburgo esiste ancora, ha cambiato nome e qualcuno martedì voleva darle fuoco

Roma. Prima i troll, poi le spie. Prima la Internet research agency, in russo Agenstvo internet-issledovanij, conosciuta come la fabbrica dei troll, poi il Gru, l’intelligence militare russa. Sempre di Russia si parla, eppure dell’agenzia di San Pietroburgo, nella quale lavoravano gli informatici impegnati a interferire nelle elezioni americane del 2016, non si sa quasi più nulla. Anche se non si chiama più così, esiste ancora e martedì qualcuno ha tentato di darle fuoco. Il procuratore speciale americano Robert Mueller sta ancora indagando sul Russiagate e quindi anche sulla Internet research agency, ma non se parla più, i troll non sono più un argomento interessante né negli Stati Uniti né in Europa. In patria gli americani finora erano più impegnati a osservare, non senza una certa morbosità, il processo a Kavanaugh, giudice candidato da Donald Trump alla Corte suprema e accusato di molestie da tre donne. All’estero eravamo tutti assorti dal caso Skripal, l’ex agente segreto russo avvelenato in Gran Bretagna con un agente nervino, e dalle gaffe delle spie un tempo considerate le più brave del mondo, quelle russe appunto. I troll, benché l’indagine sul Russiagate vada avanti, sono stati dimenticati. E, lontana dalle attenzioni dei media, dallo stupore degli analisti e dalla curiosità dei giornalisti, la fabbrica di San Pietroburgo si è riorganizzata e si è trasformata nella Fan, Federalnoe agenstvo novostej. L’agenzia ora si occupa di informazione e gestisce sedici siti web di notizie – quelle che piacciono al governo. E’ stato il sito russo Rbc a raccontare per primo la trasformazione dell’agenzia da segretissima fabbrica di troll addestrati a destabilizzare le altre nazioni a impero dei media impegnato nella diffusione delle notizie che piacciono al Cremlino.

  

L’inchiesta di Rbc è di quasi un anno fa e non ha attirato molta attenzione, anzi nessuna. Mentre i vecchi informatici impiegati della fabbrica di San Pietroburgo abbandonavano l’edificio, l’agenzia cambiava nome. Qualche troll nel frattempo ha anche deciso di parlare e di raccontare ciò che avveniva nell’Agenzia sotto la sorveglianza delle telecamere durante la campagna elettorale americana. Uno di loro, Alan Baskayev, ha rilasciato un’intervista alla televisione russa Dozhd, il suo compito era fomentare le tensioni razziali sui social, “era postmodernismo puro”, ha raccontato esaltato. Un altro, Aleksei, al New York Times ha detto che lui si occupava di diffondere notizie false sull’Ucraina e sulla Siria. Infine, Marat Mindiyarov è stato intervistato dal Washington Post: “La fabbrica è un posto dove dovevi scrivere che il bianco è nero e che il nero è bianco”, ha detto. Che fine abbiano fatto gli altri impiegati non si sa, ma il sito Rbc ha svelato invece cosa fa ora la Fan e soprattutto nell’inchiesta torna un nome importante, quello di Yevgeny Prigozhin, conosciuto come il cuoco di Putin. La fabbrica era finanziata proprio da lui, il curatore e il finanziatore di tutte le attività illecite del Cremlino, dagli hackeraggi agli interventi militari in Ucraina o in Siria. Prigozhin secondo Rbc sostiene economicamente anche questa nuova iniziativa. Per la Fan lavorano più di 200 giornalisti – molto ben pagati si legge nell’inchiesta, anzi talmente ben pagati che tanti giovani hanno lasciato le redazione in cui lavoravano per la Fan –, e il costo mensile di gestione dell’agenzia è di circa 20 milioni di rubli, 350.000 dollari. La sua funzione non è cambiata, sempre di disinformacja si occupa, ma si è riorganizzata, è diventato un conglomerato di media e ha un altro nome, pur trovandosi sempre su via Savushkina a San Pietroburgo. La Fan in realtà esisteva già da qualche anno, era soltanto un portale di informazione, senza l’ambizione di arrivare a controllare un vero impero mediatico che senza dubbio non ha le stesse origini romantiche della fabbrica di troll, nata, come racconta sempre Rbc, dall’idea di offrire hot dog in omaggio a chi si fosse presentato a un evento a New York organizzato su Facebook. L’evento non c’era, ma le persone che ne avevano avuto notizia sul social network si presentarono. I troll capirono che da San Pietroburgo era possibile creare falsi miti anche negli Stati Uniti. Le interferenze sono state scoperte, per un po’ dimenticate nonostante l’inchiesta di Rbc.

 

Martedì qualcuno ha cercato di appiccare un incendio nella sede dei nuovi giornalisti-troll. Qualcuno ha gettato una molotov rompendo una finestra. “Lo hanno fatto perché ci odiano, non è la prima volta – ha detto uno dei suoi redattori – Di solito ci attaccano su internet, hanno iniziato a farlo fisicamente”.

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