Il soldato tedesco Conrad Schumann, durante la costruzione del muro, salta nella parte ovest di Berlino nel 1961 (Foto via Flickr)

D come disinformazia

Daniele Raineri

Ladislav Bittman, il maestro dell’intelligence e della propaganda sovietica, era fuggito nel 1968 ed era diventato un professore a Boston. Ci ha spiegato con quarant’anni di anticipo le tecniche che oggi vediamo su internet

A metà settembre è morto nell’atelier sulla costa dell’oceano Atlantico dove esponeva i suoi quadri Lawrence Martin Bittman, un professore di Boston che si occupava di disinformazione e intelligence. Il professore aveva ottantasei anni e viveva in America da cinquanta. Nella prima metà della sua vita, quella più breve e tumultuosa, era cresciuto con il nome di Ladislav Bittman in Cecoslovacchia, un piccolo stato europeo che ha cessato di esistere nel 1992. Da ragazzo Bittman aveva visto i nazisti prendersi il paese e quando dopo la guerra si era trovato dalla parte del blocco sovietico si era iscritto con devozione al Partito comunista, era stato arruolato nell’intelligence già durante gli ultimi mesi di università – fu scelto da Partito che gli aveva messo gli occhi addosso per il carattere brillante, lui accettò con entusiasmo – e per quattordici anni era stato un ufficiale molto apprezzato dei servizi segreti cecoslovacchi. Negli ultimi anni della sua carriera fu addestrato come specialista nella disinformazione, che allora era uno dei settori più promettenti e più impegnati del ramo intelligence – e lo è anche oggi.

 

Ladislav Bittman subì l’occupazione nazista, si iscrisse al Partito comunista con entusiasmo e idealismo, ma presto fu deluso

Bittman spiegava che il ruolo consueto dei servizi fino ad allora era stato raccogliere informazioni e poi passarle verso l’alto ai politici che dovevano prendere le decisioni. Ma si trattava di un ruolo troppo passivo e gli agenti avevano cominciato a dedicare molte delle loro risorse a quelle che chiamavano “misure attive”, che erano le operazioni speciali per colpire i nemici e aiutare gli alleati. Perché limitarsi a conoscere i fatti, quando invece puoi avere il potere di determinare i fatti? L’input arrivò per primo dall’Unione sovietica, che pensava che i suoi servizi segreti fossero sottoutilizzati e che il loro potenziale vero non fosse sfruttato abbastanza. Questa definizione, “misure attive”, usata dagli agenti del blocco dell’Est si sente molto spesso oggi quando si parla delle interferenze da parte dell’intelligence russa in occidente – che vanno dalla violazione dei computer del Partito democratico americano per rubare i messaggi di posta elettronica e gettarli su internet perché li leggano tutti com’è successo nell’estate 2016 fino all’eliminazione fisica dei disertori dell’intelligence che si sono rifugiati nei paesi dell’Europa occidentale, vedi la tentata uccisione di Sergei Skripal a marzo.

  

Il 17 maggio 1957 il prefetto francese di Strasburgo, André-Marie Trémeaud, ricevette in dono una scatola di sigari da 19 per 14 centimetri in un pacco anonimo che portava soltanto il timbro di spedizione di un quartiere popolare di Parigi. Quando il suo segretario posò il pacco sulla sua scrivania, il funzionario propose al suo interlocutore del momento di fumarne un paio, ma quello rifiutò e lui se ne dimenticò. Più tardi, durante i preparativi per un party che sarebbe cominciato da lì a poco, sua moglie aprì la scatola con un tagliacarte e morì nell’esplosione “enorme” che ne seguì. Tremeaud era stato anche prefetto in Algeria prima di tornare in Francia e per questo i primi sospetti caddero sui ribelli algerini, che spesso usavano questi metodi. Ma la polizia francese scoprì presto alcune prove che portavano a una fazione neonazista tedesca, il Gruppo combattente per l’indipendenza della Germania, che l’anno prima aveva cominciato a far circolare i suoi comunicati molto minacciosi contro i diplomatici francesi, americani e inglesi e contro i militari stranieri in servizio sul territorio tedesco. Il Gruppo rivendicava la scelta della lotta armata per riunificare il paese e combattere l’influenza occidentale – e scatenava molti timori, considerato che la Germania nazista era finita da poco più di un decennio. Era curioso che gli attacchi del Gruppo fossero sempre rivolti contro bersagli occidentali a dispetto della forte vena anticomunista dei suoi proclami. Ad aggiungere tensione c’era una lettera, apparentemente firmata dal capo della sezione politica dell’ambasciata americana a Berlino, che doveva restare segreta e invece circolava in ambienti diplomatici e rivelava che gli americani guardavano con favore alle organizzazioni neonaziste in Germania per compensare il pericolo comunista. Si parlava così tanto di questa questione che quando l’Unione sovietica cominciò a prendere posizione e a mandare messaggi di solidarietà alla Francia contro il pericolo del revanscismo nazi sembrò un gesto perfettamente naturale. Ma il gruppo combattente, i suoi comunicati e gli attentati esplosivi erano tutti una fabbricazione messa in piedi dai servizi segreti cecoslovacchi, in accordo con i loro sponsor di Mosca.

 

“The deception game”, il libro che racconta le strategie dell’ex spia, è stato pubblicato in America negli anni Settanta

Di esempi di misure attive risalenti a quegli anni ce ne sono molti. Il tentativo di avvelenare con un potente medicinale la redazione di Radio Free Europe, l’emittente che trasmetteva propaganda americana nei paesi dell’est – fu sventato da un doppiogiochista che lavorava anche per gli altri –, le voci sulle armi batteriologiche usate dai soldati americani in Corea contro la popolazione, la spedizione di una finta edizione di una rivista anticomunista a tutti i dissidenti che vi erano abbonati, però con contenuti brutalmente comunisti tanto per dare il messaggio: sappiamo come trovarvi tutti, e naturalmente anche alcuni omicidi politici. Quest’ultima pratica, assassinare i personaggi scomodi, a un certo punto venne lasciata cadere non per ragioni umanitarie ma perché a volte i sicari passavano all’altra sponda, con gli americani, e quello che rivelavano alla fine era più dannoso che lasciare in vita i bersagli. C’era poi il gioco delle lettere, che funzionava così: si mandava a una serie di personaggi famosi un biglietto di ringraziamento per l’appoggio ricevuto da questo o quel candidato di un movimento politico, quando i personaggi famosi protestavano di non avere mai dato il loro appoggio il candidato ignaro di tutte queste macchinazioni alle sue spalle ormai era fritto, era considerato per sempre un impostore. Un dipartimento disinformazione produceva tra le trecento e le quattrocento operazioni speciali ogni anno, che erano valutate con un criterio semplice: lo spazio che si guadagnavano sulla stampa. L’idea di fondo non era quella di vibrare un colpo singolo e mortale, ma di sfruttare l’effetto cumulativo, operazione dopo operazione. Se vi suona familiare è perché anche oggi è così, con la differenza che internet e i social media hanno reso questo lavoro molto più facile.

 

Bittman spiegava che le operazioni speciali “assomigliano a un gioco in cui i partecipanti si dividono in tre categorie di base: l’iniziatore, il nemico e la vittima. L’iniziatore formula e istiga le operazioni. Il nemico può essere un intero paese oppure soltanto le agenzie del governo o le sue istituzioni. Il nemico può essere anche un individuo o un gruppo di individui. Dal punto di vista delle agenzie d’intelligence comuniste, il ruolo di nemico era molto spesso assegnato agli Stati Uniti o alla Germania ovest. La vittima è un innocente sfruttato dall’iniziatore nell’attacco contro il suo nemico. La vittima spesso diventa il bersaglio delle controffensive del nemico, perché lo scopo dell’iniziatore è fare in modo che il nemico scambi la vittima per l’autore dell’attacco, cioè l’iniziatore. Il ruolo di vittima è spesso giocato da paesi in via di sviluppo”.

 

Quando parlava del suo lavoro nel campo della disinformazione Bittman notava altri due punti molto interessanti. Il primo era che i paesi dell’est avevano un vantaggio naturale su quelli al di qua della Cortina di ferro: i paesi liberi proteggevano e incoraggiavano la libertà di informazione e quindi erano vulnerabili alla disseminazione della propaganda e delle notizie false e invece i paesi autoritari erano impermeabili alle notizie libere da fuori e quindi naturalmente immuni ai tentativi occidentali di restituire i colpi. Vale anche oggi, è molto più facile far girare un articolo con informazioni finte in Italia che in Russia o in Cina. Il secondo punto è che la disinformazione era un campo così delicato e importante che le misure attive erano autorizzate soltanto dai vertici. Di nuovo, vale anche oggi. Quando leggiamo cosa fanno gli hacker di stato russi russi tendiamo a pensare che agiscano ai margini, che lavorino senza quasi essere capiti dai loro superiori. Ma sbagliamo. Agiscono su mandato dei vertici della politica. Non c’è un tizio di duecento chili chiuso nella sua cantina che gioca a fare l’hacker e apre le mail dei democratici per hobby, come diceva Trump durante la campagna elettorale.

 

Quando la moglie del prefetto di Strasburgo morì in un attentato, nessuno sospettò che i “terroristi neonazi” fossero degli impostori

Nel corso del tempo l’esposizione al lavoro cinico dell’intelligence ripulì Bittman di tutto il suo idealismo iniziale. Per tre anni fu tenuto bloccato al gradino più basso della scala gerarchica perché si era impuntato a sposare un’ebrea e questo cozzava con gli ideali e con l’antisemitismo sfrenato del Partito comunista cecoslovacco. “Gli ebrei – gli dicevano i superiori – non possono essere leali alla nostra causa perché sono già fedeli alla loro. Continua pure a frequentare questa ragazza, fai quello che vuoi con lei ma non sposarla”. In teoria tutte le operazioni erano condotte a compartimenti stagni. Un reparto non sapeva cosa facevano gli altri reparti e alla fine tutto il materiale era distrutto, perché non c’era alcun bisogno che qualcuno conservasse la memoria di quelle attività. Si vede che nel subconscio dei paesi dell’est era chiaro che le situazioni possono cambiare in fretta e gli archivi possono essere letti da qualcuno che non dovrebbe. In pratica però i colleghi parlavano tra loro e si vantavano dei successi. Quando scappò in America nel 1968 perché la repressione sovietica della primavera di Praga gli aveva aperto gli occhi, Bittman era un archivio umano di informazioni preziose. Per di più all’epoca i servizi cecoslovacchi non si occupavano soltanto del loro paese, ma erano considerati da Mosca una dependance gloriosa di quelli sovietici. Anzi, erano ancora più preziosi perché era più facile per i cecoslovacchi muoversi nell’Europa centrale che per i russi, che scatenavano subito sospetti. Il risultato fu che la Cecoslovacchia era uno staterello minore del Patto di Varsavia con un’agenzia d’intelligence gigantesca e assolutamente sproporzionata alle sue necessità – ma non a quelle degli sponsor sovietici – e posizionata nel cuore del continente come una piattaforma di lancio per le operazioni all’estero. Lo storico Petr Cajthaml, che ha studiato le operazioni del dipartimento disinformazione cecoslovacco, dice che negli anni Sessanta era quello che otteneva i successi più grandi subito dopo quello sovietico ed era molto sopra le capacità degli altri stati satellite. “I cecoslovacchi operavano in tutto il mondo. Non soltanto in Europa, ma in entrambe le Americhe, in Africa e in Asia”.

 

I servizi segreti dell’est giustificavano le operazioni di disinformazia con la teoria della “sovversione ideologica” da parte degli occidentali. Il capitalismo, dicevano, ha smesso per ora di fare la guerra con le armi e i soldati ma ha dichiarato una guerra psicologica contro i lavoratori, li vuole sedurre e abbagliare con l’infinita potenza dei mezzi economici di cui dispone. Se tutto dell’occidente era così attraente, dalla musica alla moda allo stile di vita, allora era più che giusto rispondere con una controguerra psicologica e accusare l’America e la Germania dell’ovest – i due bersagli più detestati – dei peggiori complotti contro il resto del mondo. Bittman non credeva alla teoria della sovversione ideologica ed era amareggiato dalla constatazione quotidiana che i cecoslovacchi odiavano l’intelligence. Una volta, alla fine di un appassionato sermone di un commissario politico dentro al quartier generale, chiese: “Ma se il nostro sistema è scientificamente superiore a quello dei capitalisti ed è sufficiente il ragionamento logico a dimostrarlo, perché non usiamo l’approccio scientifico per convincere quelli che stanno dall’altra parte invece di queste operazioni di disinformazione?”. Non era più lo studente infervorato che credeva nel Partito. I suoi superiori presero nota e gli consigliarono di evitare qualsiasi altra “provocazione”.

 

Il successo di un’operazione era valutato sulla base dell’attenzione ottenuta sulla stampa. Oggi con i social è tutto più facile

Bittman riuscì a fuggire in America soltanto grazie al fatto che durante l’invasione di Praga era a capo della rezidentura dei servizi a Vienna, in Austria. Le rezidentura erano le stazioni sparse all’estero, da dove i servizi coordinavano le operazioni speciali. Ogni stazione aveva i suoi “agenti”, che erano persone che lavoravano per l’intelligence perché erano ricattate o perché avevano bisogno di soldi o per entrambi i motivi e non erano mai considerati affidabili al cento per cento, e gli “organi”, detti anche “funzionari”, che erano gli uomini selezionati e addestrati dai servizi per guidare gli agenti sul campo. Bittman racconta che uno dei suoi agenti per esempio era un gay che temeva di essere rivelato come tale e che in cambio di una paga mensile imbucava finti comunicati politici prodotti dall’intelligence. Un giorno si rese conto di avere spedito il pacco esplosivo che aveva ucciso un dissidente, chiese di essere spostato a est – uno dei pochi che fece il viaggio dal mondo libero verso i paesi comunisti.

 

Una notte dell’agosto 1968 Bittman aspettò che la macchina con due agenti russi parcheggiata davanti al portone del suo palazzo lasciasse il suo posto di sorveglianza, perché sospettavano che volesse scappare ma non così presto, afferrò le valigie già pronte assieme alla moglie, guidò in circolo dentro la città per assicurarsi di non essere seguito e poi si diresse verso ovest, verso la Germania, con una macchina con targa diplomatica. Arrivato al confine con la Germania ovest si fumò una sigaretta, tolse il contrassegno diplomatico dalla targa per non dare troppo nell’occhio e andò a consegnarsi alla Cia, sicuro che il suo curriculum sarebbe stato un motivo d’interesse. Quattro anni più tardi, ormai al sicuro in America, pubblicò un saggio intitolato “The deception game”, che raccoglie il meglio della sua conoscenza nel settore. Se ne trova ancora qualche copia usata e ingiallita su Amazon, con data di stampa 1972. E’ una lettura strepitosa e considerate tutte le operazioni di propaganda che vediamo – o che non vediamo? – in questi anni è quasi obbligatoria.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)