I ribelli della regione a nord di Idlib (foto LaPresse)

Assad e i suoi alleati preparano l'assalto a Idlib che Trump non vuole

Daniele Raineri

Russi e iraniani sono pronti, anche la propaganda è stata rodata. Le voci dalla città che aspetta lo scontro finale

New York. Il presidente americano Donald Trump avverte su Twitter che “Bashar el Assad non deve attaccare in modo spregiudicato la provincia di Idlib. La Russia e l’Iran farebbero un grave errore umanitario se prendessero parte in quella potenziale tragedia umanitaria. Centinaia di migliaia di persone potrebbero essere uccise. Non lasciate che avvenga!”. La capacità di sintesi di Trump – che in altri campi suona spesso demenziale – quando è applicata alla Siria coglie nel segno con una potenza che altri governi non hanno saputo nemmeno immaginare (come scordare quando definì il rais siriano “Animal Assad” perché usa le armi chimiche contro la sua stessa popolazione civile, bambini inclusi?). La campagna militare per prendere Idlib che in queste settimane riempie i discorsi e i pensieri di tutto il medio oriente e che in occidente invece è un po’ trascurata – perché le notizie della guerra siriana hanno saturato l’opinione pubblica – rischia davvero di diventare una catastrofe umanitaria, il grande rogo di persone e di città che concluderà la guerra civile più sanguinosa di questi anni.

 

Di solito quando Trump parla a proposito della situazione in Siria ottiene attenzione immediata, perché poi autorizza davvero il Pentagono a colpire e anche se finora si è trattato di un impiego della forza militare quasi poco più che simbolico e di raid limitati la sua Amministrazione è comunque una minaccia per Assad molto più che il resto della comunità internazionale. In questo caso però la Russia ha subito respinto le accuse. “Idlib è un vespaio di terroristi”, ha detto il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov e tanto per rafforzare il concetto che Mosca considera l’assalto imminente e irrevocabile i jet martedì mattina hanno bombardato due città nella provincia.

 

Il 23 agosto il Consigliere per la sicurezza nazionale americano, John Bolton, ha incontrato il suo omologo russo, Nikolai Patrushev – ex capo dell’intelligence e architetto dell’intervento russo in Siria fin dal 2015 – per avvertire che l’uso di armi chimiche da parte del governo siriano per espugnare la zona non sarà tollerato. In cambio i russi fanno circolare da settimane sui loro canali di stato finte notizie di intelligence per avvertire che i gruppi ribelli stanno per attaccarsi da soli con armi chimiche per poi incolpare le forze assadiste (come se la popolazione di Idlib fosse così scema da suicidarsi con armi chimiche nella speranza di un intervento militare risolutivo da fuori che non è mai arrivato e non arriverà mai). E’ un trucco di propaganda per preparare l’opinione pubblica a una evenienza facile da immaginare: la regione di Idlib è in mano a un assortimento di gruppi armati – alcuni estremisti – che potrebbero opporre molta resistenza e creare parecchi perdite tra gli attaccanti. L’esercito di Assad, che già soffre di carenza di uomini, potrebbe subire un’emorragia troppo grave di uomini e quindi ricorrere alle armi chimiche, che a marzo nella regione della Ghouta vicino Damasco hanno avuto un ruolo importante nella capitolazione dei gruppi armati locali. L’uso delle armi chimiche da parte di Damasco per atterrire e dominare la popolazione è una possibilità da non scartare – considerato anche che le sanzioni da parte della comunità internazionale non mettono mai a repentaglio la tenuta di Bashar el Assad, perché nessuno ha un’alternativa pronta.

 

Da quasi un anno ormai alcuni contatti dentro Idlib che per ragioni di sicurezza preferiscono restare anonimi mandano messaggi angosciati perché vedono quello che succederà: “Come andrà a finire, chiedono, nessuno da fuori interverrà in nostro favore? Sarà un disastro, finirà che moriremo tutti – dicono al Foglio – perché anche se qui tutti prendessero le armi per resistere è una lotta persa in partenza, non si può stare per sempre sotto i bombardamenti degli aerei. Fanculo ad al Qaida, fanculo gli stranieri, prima che arrivassero loro le cose andavano bene, avevano capito tutti in tutto il mondo la nostra lotta per liberarci di Assad, poi quelli di al Qaida hanno ammazzato la nostra immagine davanti agli occhi del mondo intero, hanno ucciso la rivoluzione, e adesso i soldati del regime ci ammazzeranno davvero”. A volte, nei mesi scorsi, c’era stata la speranza intermittente che la Turchia sarebbe intervenuta e che avrebbe invaso la regione per metterla sotto il suo controllo – e che si sarebbe occupata anche di spazzare via i gruppi estremisti. Del resto la regione frontaliera di Idlib è sempre stata contesa tra Ankara e Damasco, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha sempre avuto appetiti espansionistici e ha anche ragioni molto pratiche e forti per creare un protettorato a Idlib: così avrebbe una regione dove riversare progressivamente i tre milioni di profughi che ancora vivono in Turchia. Per qualche tempo è circolata l’idea che Idlib sarebbe diventata una Striscia di Gaza in versione levantina (e più grande), un territorio così problematico e ostico da conquistare che era meglio lasciarlo a se stesso e trasformarlo in un contenitore di profughi. Quando sono entrate le truppe turche dentro la zona di Idlib i contatti hanno esultato: “E’ la fine di al Qaida, è il loro ultimo giorno qui, si stanno nascondendo”. E’ durata poco. Le truppe turche non sono entrate per combattere, hanno soltanto allestito alcuni avamposti di osservazione, hanno creato un paio di basi più grosse e aspettano che gli eventi si dipanino per prendere decisioni. La Turchia è già impegnata nella lotta ai curdi, ha già combattuto alcune battaglie molto lunghe contro lo Stato islamico nel 2016, non intende ripulire Idlib dagli estremisti con una campagna molto difficile – soprattutto se vuol dire fare il lavoro pesante al posto del governo centrale di Damasco, dell’Iran e della Russia. I messaggi sono diventati di nuovo angosciati: “La Turchia non sta facendo nulla. Ha anche la moneta a pezzi, non si vuole immischiare in questa storia”.

 

Da mesi le forze del governo siriano e i due sponsor, Iran e Russia, si preparano a prendere la regione, che è nel nord-ovest del paese, ha alcuni grandi centri abitati e che fu la prima a liberarsi dal controllo (in alcuni posti i militari di Assad non mettono piede dal 2012) e che è l’ultima a opporre ancora resistenza. In questi anni il regime ha sempre offerto ai gruppi armati e ai ribelli la possibilità di spostarsi a Idlib in cambio della capitolazione in altre città, e così è stato. Anche le recenti vittorie governative vicino alla capitale Damasco si sono concluse in questo modo: chi voleva continuare a combattere oppure chi non voleva tornare a vivere sotto il controllo di Assad doveva salire a bordo di autobus – dipinti di verde e ormai sono diventati il simbolo della sconfitta della rivoluzione anche in canzoni, vignette e barzellette – e accettare il trasferimento nell’area di Idlib. La zona era diventata la valvola di sfogo per tutta la parte di Siria che non accetta l’assadismo di stato e oggi contiene non meno di tre milioni di persone. Se le cose vanno male e la guerra travolge i civili, si potrebbe creare una crisi peggiore di quella del 2014 e 2015, quando centinaia di migliaia di siriani in fuga si diressero verso l’Europa.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)