Vladimir Putin (foto LaPresse)

La Russia sospesa

Micol Flammini

Il mito e la nostalgia di una bellicosa età dell’oro fanno vivere al paese un eterno presente. Putin, il grande equilibrista tra passato e futuro

In “Storia della rivoluzione russa”, Lev Trotsky osservava che la caratteristica fondamentale della storia nazionale è il ritmo lento con cui procede. La lentezza del tempo, da non confondere con la svogliatezza della mente, hanno determinato “la sua arretratezza economica, il primitivismo delle sue strutture sociali e la cultura”. L’onnipresenza della storia immobilizza e incanta lo sviluppo del presente, o meglio del futuro. La Russia sembra così rimanere in una dimensione sospesa, in cui vige un eterno presente che racconta di un tempo percepito come grandioso. Una bellicosa età dell’oro.

 

Alla centralità della storia nella contemporaneità sono dedicati tre libri che hanno come soggetto il rapporto tra passato e futuro e che ben descrivono come nessun’altra nazione al mondo sia così legata alla storia, vissuta o immaginata. “The Future Is History” di Masha Gessen, “The Long Hangover” di Shaun Walker e “Lost Kingdom” di Serhii Plokhy sono tre opere uscite nel 2017 che ritraggono l’attualità, il governo e in parte raccontano anche il futuro. Scavano negli anni e immancabilmente riescono a spiegare ogni mossa presente del Cremlino.

 

Tre libri recenti descrivono bene come nessun’altra nazione al mondo sia così legata alla storia, vissuta o immaginata

Il potere in Russia basa la sua legittimità sull’eccezionalità di una nazione da sempre destinata a percorrere un cammino diverso rispetto alle altre, sulla continuità con una storia che nessuno dei leader politici di oggi ha contribuito a costruire. Infatti, nessuno di loro può vantare di aver combattuto durante la Seconda guerra mondiale, chiamata con orgoglio dal russi la grande guerra patriottica, nessuno ha contribuito a mandare Gagarin nello spazio o Sachlin alle Olimpiadi di Melbourne, Roma e Tokyo dove il ginnasta vinse tre ori consecutivi. Eppure il Cremlino, per sentirsi legittimato di fronte ai suoi elettori ha ancora bisogno di quella retorica. I funzionari dello stato si definiscono gli eredi delle pagine più edificanti della storia sovietica e i vendicatori di quelle più traviate. Così in tutta la Russia continuano a spuntare monumenti che inneggiano al passato glorioso. Un busto di Stalin nel centro di Mosca nella via che non ha mai smesso di chiamarsi la strada dei governatori. Un altro monumento al principe Vladimir che ha convertito la Russia alla fede ortodossa e uno anche a Piotr Stolypin, il primo ministro che ha accompagnato la fine del regno dell’ultimo zar, Nicola II. Queste statue hanno un significato preciso e chiudono il cerchio che ingloba nell’area della legittimità storica anche l’attuale presidente russo Vladimir Putin, che è ormai assurto al ruolo di unificatore ideologico della nazione.

 

Il putinismo ha dato vita a una forma di governo che è allo stesso tempo potere e proprietà. Oggi chi governa la Russia la possiede anche economicamente. Il putinismo è l’intromissione dello stato in ogni aspetto della vita del cittadino. Putin detiene il monopolio sulla politica, nessuno riesce a competere contro di lui, sull’economia, sulle anime, supporta la chiesa, che a sua volta supporta lo stato dandogli un’aura di sacralità, e infine ha il monopolio sulla storia e sulla memoria: è lui che decide quali episodi meritano di essere ricordati e quali no. Quali personaggi elevare al rango di eroi e quali dimenticare. Ortodossia, terra e passato. I tre pilastri dell’identità che però si regge anche su un altro fattore identitario importante: il popolo. L’essere parte di un gruppo tenuto insieme dalla consapevolezza e dal mito della propria eccezionalità. L’ideologia che permea il putinismo procede per antitesi, è fondata sull’isolazionismo, sulla contrapposizione est-ovest e ovviamente sull’imperialismo che ha visto nell’annessione della Crimea il culmine dell’autorità di Putin. Un atto che lo ha fatto arrivare all’80 per cento dei consensi nel 2014.

 

“Lost Kingdom” di Serhii Plokhy rincorre l’idea dell’impero, scomparso o riconquistato, come cuore dell’identità russa

“Lost Kingdom” di Serhii Plokhy rincorre l’idea dell’impero, scomparso o riconquistato, come cuore dell’identità russa. Il libro inizia dal regno di Ivan III e spiega perché l’annessione della Crimea risponda alla paura dei russi del restringimento dei confini nazionali. Quando Vladimir Putin parlò per la prima volta della Novarossiya, della federazione che avrebbe dovuto tenere insieme tutte le repubbliche filorusse, Transnistria, Abcasia e Ossezia del sud, la causa non era sentita quanto quella della Crimea, vista da sempre come una propaggine dell’impero. La località di vacanza, storicamente e culturalmente legata a Mosca. Come spiega bene nel suo libro Plokhy, storico e professore presso l’università di Harvard, l’annessione della Crimea è stata interpretata come la restaurazione della giustizia storica. E’ una nemesi per i russi, ha risvegliato l’orgoglio imperiale e li ha tirati fuori dall’onta di aver perso l’Unione sovietica.

 

Shaun Walker, ex corrispondente da Mosca per il Guardian, fa ruotare gran parte del suo “The Long Hangover” attorno all’annessione della penisola che ha rappresentato uno spartiacque soprattutto per la vita politica del presidente russo: c’è un Putin pre Crimea e un Putin post Crimea. Il sottotitolo del libro è “Putin’s new Russia and the ghosts of the past”, la nuova Russia di Putin e i fantasmi del passato che hanno iniziato a perseguitare anche gli abitanti dell’Ucraina orientale dopo il referendum, tra euforia e illusione. Walker descrive persone che conducono una vita ordinaria, ma la cui esistenza è stata stravolta dalla storia recente e passata. Così, nel libro compaiono cittadini ucraini che vedono in Mosca un faro di speranza e altri attratti e affascinati dalle forme di nazionalismo locali, come il leader Stepan Bandera. Walker inizia il suo racconto nel Donbass dove incontra un uomo chiamato Il Rumeno. E’ un nome di battaglia. Il giornalista, per prima cosa gli chiede: “Le esecuzioni in pubblico non le sembrano un po’ fuori luogo nell’Europa del Ventunesimo secolo?”. Il Rumeno risponde scrollando le spalle: “Nessuno cerca di dare la colpa al chirurgo perché ha rimosso un tumore con il bisturi. Questo è quello che stiamo facendo qui”. Nel libro del reporter compaiono tutti questi personaggi che nella guerra nell’Ucraina orientale hanno trovato un’identità e uno scopo. Combattere per tornare a far parte dell’impero ha tirato fuori la rabbia e la sofferenza di una storia mai finita e ha liberato una serie di personaggi, come Il Rumeno, che non avevano trovato una collocazione nella società e adesso, nella battaglia, nella rivendicazione e nell’esercizio della giustizia sommaria hanno trovato la loro ragione di vita. Personaggi attraenti e ripugnanti allo stesso tempo, sicuramente romanzeschi, come, a livello più elevato, Alexander Dugin.

L’annessione della Crimea, una nemesi: ha risvegliato l’orgoglio imperiale e ha fatto dimenticare l’onta di aver perso l’Urss

Per decenni è stato considerato l’ideologo del putinismo, ma è uno di quei prodotti esteri che hanno ricevuto più attenzione dai media occidentali che in patria. Putin è stato in grado di intercettare di cosa avevano bisogno i russi, Dugin è un personaggio poco comprensibile, di un esoterismo che sfiora la ciarlataneria, proprio come l’altro grande e celebre mistico Rasputin. In “The Future Is History”, Masha Gessen lo ha intervistato. E’ uno dei sette personaggi che si raccontano nel libro della giornalista del New York Times e del New Yorker. Ne viene fuori un ritratto per nulla grandioso. Un sottoprodotto della cultura post sovietica in cerca di identità. Trasportato dal vento della storia, è troppo vecchio per capire e interpretare la Russia di oggi e troppo giovane per essere considerato un saggio. 

 

Nel prologo, la Gessen scrive: “Volevo raccontare non solo quello che è accaduto, ma anche ciò che non è accaduto, la storia della libertà che non è mai stata provata e della democrazia che non è mai stata desiderata”. La giornalista, che in italiano ha pubblicato “Putin. L’uomo senza faccia” e “I fratelli Tsarnaev. Una moderna tragedia americana”, ha costruito il suo racconto percorrendo le vicende di sette personaggi reali. Quattro ragazzi nati all’inizio degli anni Ottanta, per i quali la caduta dell’Urss è stato uno dei primi ricordi, e tre adulti. Un filosofo, Dugin appunto, un sociologo, Lev Gudkov, direttore del Levada center, e una psicologa, Marina Arutyunyan. “The Future Is History” è un libro che narra l’assenza e rintraccia proprio nell’ipercinetico tentativo di riempire il vuoto storico, politico e ideologico, l’incredibile equilibrismo di Putin. Anche nell’opera della Gessen è centrale l’impero e soprattutto la sua fine.

 

I tre libri gareggiano tra di loro nel tentativo di dare una risposta al collasso dell’Unione sovietica. In “Lost Kingdom”, Serhii Plokhy suggerisce l’idea che l’Urss è implosa perché l’implosione è il destino di ogni impero, si guardi quello austro-ungarico o quello ottomano. Ma L’Unione sovietica, secondo Masha Gessen era qualcosa di più, era un corpo umano e non è collassato, bensì, come accade agli organismi viventi, si è consumato a livello biologico. Non appena Mikhail Gorbaciov lanciò la perestrojka, una cauta e attenta ristrutturazione del sistema, l’ultimo tentativo disperato di tenere in vita il gigantesco organismo appesantito dagli anni e dalle dimensioni, l’Urss cedette immediatamente e il segretario del Partito comunista non poté far altro che addossarsi la responsabilità della valanga.

 

Ma il crollo sovietico non si è concluso il 25 dicembre del 1991, quando dal Cremlino venne abbassata la bandiera rossa con la falce e il martello e rimase a sventolare solo il tricolore russo. Quello fu solo l’inizio della lunga dipartita dell’impero che si è prima consumato fisicamente e poi mentalmente e l’annessione della Crimea non fa altro che testimoniare che questo processo continua ancora oggi.

Masha Gessen racconta “la storia della libertà che non è mai stata provata e della democrazia che non è mai stata desiderata”

 

Masha Gessen fa notare nel suo libro che se negli anni Ottanta la modernizzazione era un’idea che incantava i cittadini dell’Unione sovietica, qualcuno voleva l’emancipazione nazionale, altri la democrazia, alcuni semplicemente il benessere materiale che il capitalismo poteva assicurare. Ma nel ricordo del popolo russo glasnost e perestrojka sono sinonimi di sconfitta, non hanno portato benessere, hanno provocato il restringimento della nazione e la democrazia è stata reinterpretata in chiave locale. Oggi quindi, la maggior parte delle persone comuni non vuole vedere cambiamenti radicali perché ha paura degli effetti negativi. Le élite e Putin l’hanno capito, hanno imparato la lezione e hanno iniziato a giocare a nascondino con il passato. Sanno che la modernizzazione scuoterebbe le fondamenta della nazione e loro non vogliono cadere.

 

Quando nel 1999 venne scelto Vladimir Putin come successore di Boris Eltsin fu per evitare che fossero due veterani della politica sovietica a occupare il Cremlino: Yurj Luzhkov e Yevgeny Primakov. L’attuale presidente russo avrebbe dovuto proteggere i risultati democratici e le nuove politiche di mercato. Era il candidato perfetto che ha fatto esattamente il contrario. Ha distrutto gli anni Novanta, ha costruito il mito attorno al suo carisma, ha demolito Eltsin e quando nel 2001 decise di sostituire l’inno adottato nel 1991 con quello sovietico – stessa musica ma parole diverse – fu chiaro che il presidente stava cercando di imporsi come elemento di continuità con il passato e non con il presente. Con il regime e non con i tentativi democratici.

 

Ecco svelato il perché del titolo di Masha Gessen. “The Future Is History” perché il futuro della Russia non è solo determinato dal suo passato. Il complicato ballo tra la Russia e il suo futuro nasce dalla presenza di un passato ingombrante. Come nota Plochy, tutto ciò che fa Putin, annessione della Crimea inclusa, muove da giustificazioni storiche e culturali. Ha capito che non era appropriato criticare il regime sovietico, lezione che Breznev aveva imparato prima di lui, e si è posto in continuità con la grande guerra patriottica. Con un’alchimia di nazionalismo, sindrome imperialista e ortodossia Vladimir Putin è diventato lentamente Putin e nel corso degli anni, è diventato un idolo in patria e temuto all’estero.

 

Non sempre la storia è interpretata alla lettera. Il partito del presidente russo si chiama Russia unita. Era un antico slogan coniato durante la rivoluzione e veniva usato contro i bolscevichi. Se l’élite di oggi ha costruito uno stato sulla nostalgia sovietica, non ha nessun problema ad appropriarsi di uno slogan dell’opposizione. Tutte contraddizioni generate da una forma ibrida di governo, che si definisce democrazia perché non è a tutti gli effetti un regime.

 

I tre libri, seppur con diversi approcci e percorrendo strade parallele, dimostrano come la Russia sia intrappolata nella mitologia. La forza dell’attuale presidente russo che è riuscito a mantenersi stabile al potere è dipesa dal suo equilibrismo tra presente e passato. Ma qualcosa sta cambiando. La rivoluzione aveva portato in Russia un ottimismo selvaggio, un’energia violenta e fiducia. Emozioni che non hanno trovato riscontro nell’attuazione degli ideali rivoluzionari. La Russia di oggi non ha mai provato queste speranze e forse la nostalgia del passato è in parte anche nostalgia della speranza. Come scrive Masha Gessen nel suo libro, l’Urss è arrivata al collasso come un corpo umano, come un organismo vivente si è consumato prima nel fisico e poi nella mente. Così, sembra dire l’autrice, accadrà anche questa volta. Nel 2018 il crollo anche di questo impero potrebbe essere iniziato. Avverrà con la dovuta lentezza, la stessa di cui parlava Trotsky, che sempre ha caratterizzato la storia di una nazione dove il tempo arriva, la storia sosta e il passato si dilata.

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