Vade retro, Russia
La luna di miele tra Donald Trump e Vladimir Putin sembra finita. E non per colpa della strage chimica in Siria, ma perché l’America non smette mai di vedere nel Cremlino l’impero del male
Non è stata la strage chimica del 4 aprile in Siria a interrompere il bromance virtuale fra Donald Trump e Vladimir Putin. Le affinità elettive sono svanite “quando i democratici e i repubblicani dell’establishment si sono convinti che i rapporti con il Cremlino erano la cosa che avrebbe potuto distruggere il presidente”, dice il politologo John Mearsheimer, ripercorrendo l’inesorabile accumularsi di indizi e prove intorno ai legami opachi con la Russia. Prima sono arrivati gli hacker, i legami commerciali loschi, le macchine della propaganda che producevano fake news gradite alla coppia. Poi è stata la volta degli emissari e collaboratori di Trump. Michael Flynn parlava molto e assai a sproposito con l’ambasciatore di Mosca, l’attivissimo Sergey Kislyak, l’ex manager della campagna Paul Manafort faceva consulenze al leader filorusso Viktor Yanukovich, Carter Page, uomo d’affari che in certe occasioni Trump ha detto di non conoscere, mentre in altre ha fatto il suo nome per un posto nell’amministrazione, è stato messo sotto sorveglianza con regolare mandato emesso dall’apposito tribunale. A luglio dello scorso anno l’Fbi ha aperto un’inchiesta sui rapporti incestuosi fra l’universo di Trump e il Cremlino, ed è stato il direttore dell’Fbi, James Comey, a confermare la circostanza, producendosi in un asimmetrico atto di ammenda nei confronti di Hillary Clinton, che sull’inchiesta delle email rivelata in modo improvvido da Comey durante la campagna forse ci ha rimesso le elezioni. Ha fatto un po’ come certi arbitri che puniscono un fallo in modo sproporzionato per compensare un errore commesso in precedenza ai danni dell’altra squadra. Per qualcuno è stata la conferma che perfino il capo del controspionaggio americano rispondeva ai comandi di Mosca.
A luglio dello scorso anno l'Fbi ha aperto un'inchiesta sui rapporti incestuosi fra l'universo del futuro presidente
e il Cremlino
L'ironia di questa antica battaglia contro l'eccezionalismo,
contro il concepirsi
al di sopra della storia,
è che il termine
l'ha coniato Stalin
Trump ha proclamato: "Potremmo essere
nel momento più basso di tutti i tempi
per quanto riguarda
la relazione con la Russia"
Quando ci sono
di mezzo i russi tutto
è lecito, non ci sono colpe e malefatte così grandi da non poter
Foglesong:
"È una dinamica
che esiste da prima della rivoluzione bolscevica
e della retorica dell'impero del male"
Per Foglesong la russofobia latente nella coscienza americana agisce in modo analogo: “L’antica idea di trasformare la Russia sul modello americano è sembrata in molte occasioni a portata di mano e addirittura inevitabile, ma quando poi non si è verificata, e la Russia ha mantenuto la sua identità, l’euforia si è trasformata in frustrazione e antagonismo. E’ una dinamica che esiste da prima della rivoluzione bolscevica e della retorica dell’impero del male. Da un punto di vista del conflitto delle identità, la Guerra fredda si è innestata su uno scontro precedente. Quando gli Stati Uniti nel 1905 fanno da mediatori dopo la guerra russo-giapponese, mitigando l’umiliazione di Mosca, vedono l’opportunità di una trasformazione in senso occidentale dell’impero”, e del resto organi riformisti come la Society of Friends of Russian Freedom già da tempo lavoravano con qualche successo per sensibilizzare l’opinione pubblica dell’anglosfera sulla necessità di abbattere il regime zarista e costituire un governo di impronta liberale. “Inutile dire che la rivoluzione d’ottobre ha abbattuto senza pietà queste illusioni, erigendo un sistema anche peggiore di quello che gli americani si proponevano di riformare”, spiega Foglesong.
Sestanovich:
"Il momento decisivo
è stata la crisi
in Ucraina, ma la visione negativa di Putin
è cresciuta nel tempo molto prima"
Il crollo dell’Unione Sovietica è l’altro grande momento in cui l’America vede schiudersi davanti a sé la possibilità di assimilare pacificamente e con strumenti liberali la sua grande nemesi novecentesca. Accompagnata dagli squilli di tromba della fine della storia, l’occidente vede materializzarsi la possibilità di tirare a sé la Russia. Bill Keller, ex direttore del New York Times che al tramonto della Guerra fredda faceva il corrispondente da Mosca – ha vinto anche un Pulitzer per questo – ricorda, parlando con il Foglio, che “negli anni di Gorbaciov l’America ha sperimentato un’ondata di russoforia. Gorby era una rockstar più popolare negli Stati Uniti che in Russia. Da allora, direi che l’atteggiamento prevalente dell’America nei confronti della Russia è stata la noncuranza”. La noncuranza uccide, recita un motto militare che compare spesso sulle pareti delle basi americane, e così l’ottimismo della Perestrojka è stato soltanto l’anticamera di una nuova depressione. Anne Applebaum, giornalista di origine polacche nata negli Stati Uniti e che a sua volta ha vinto un Pulitzer, è certa che la russofobia in America non esista, quello che ha dominato per molto tempo è stato il disinteresse: “La classe politica americana non si è curata della Russia fino all’invasione dell’Ucraina. Le prove della corruzione russa sono state ignorate, l’intervento militare in Georgia e i coinvolgimenti politici nell’Europa centrale sono stati minimizzati, e pure dopo l’Ucraina l’amministrazione è stata cauta. Solo quando la Russia è intervenuta nelle elezioni americane, chiarendo il rapporto bizzarro fra Trump e Putin, davvero ha suscitato interesse”, dice Applebaum al Foglio.
Una delle ipotesi per spiegare l’improvvisa noncuranza verso quello che poco prima era “l’impero del male” è il pregiudizio che il collasso sovietico comportasse automaticamente una conversione liberale. “Gli americani per molti anni hanno esagerato la distanza che la Russia aveva preso con il proprio passato, per minimizzare la distanza delle nostre posizioni. Nel tempo è diventato sempre più difficile mantenere questo approccio ottimista”, spiega al Foglio Stephen Sestanovich, politologo della Columbia che si è occupato di rapporti con la Russia al consiglio per la sicurezza nazionale nell’Amministrazione Reagan e al dipartimento di stato negli anni di Clinton. “Il momento decisivo è stata la crisi in Ucraina, naturalmente, ma la visione negativa di Putin è cresciuta nel tempo costantemente molto prima. Un tempo dicevo ai russi, specialmente quelli che si occupavano di politica estera e sicurezza, che al Pentagono nessuno faceva carriera occupandosi della minaccia russa. Questo offendeva alcuni dei miei amici, che pensavano che la Russia meritasse più attenzioni, ma era vero. A un certo punto ha smesso di essere vero. Oggi lavorare per contenere i pericoli che la Russia rappresenta offre di nuovo ottime opportunità di carriera. Chi è il responsabile di questo cambiamento? Putin”, dice Sestanovich.
Il crollo dell'Urss
è il momento in cui l'America vede schiudersi davanti
a sé la possibilità
di assimilare pacificamente
la sua grande nemesi
Se la virtuale luna di miele fra Trump e Putin era, da un punto di vista strettamente politico, un’anomalia, nella fisarmonica degli avvicinamenti e delle cadute, dei corteggiamenti e dei rifiuti, delle tensioni e dei reset fra i due paesi sembra inserirsi in una dinamica consolidata. Non va dimenticato che pattuglie di funzionari entusiasti e sovietologi del calibro del clintoniano Strobe Talbott hanno lavorato con solerzia negli anni Novanta per accelerare un processo di americanizzazione che sembrava inevitabile, e una generazione più tardi altri colleghi, come l’ambasciatore Michael McFaul, si sono adoperati con altrettanto zelo per portare avanti la stessa missione sullo sfondo del putinismo. Una serie di episodi ha puntellato la fine di questo progetto, rinfocolando una russofobia che pareva finita assieme alla storia di Francis Fukuyama. La conferenza di Monaco del 2007 in cui Putin ha dato all’America la colpa dell’instabilità globale e di qualunque altra cosa; la guerra in Georgia; il caso Khodorkovsky; l’invasione dell’Ucraina; il coinvolgimento nella guerra in Siria. Ora la strenua protezione di Assad e dell’asse sciita con cui Mosca proietta il suo potere sul quadrante mediorientale. In mezzo ci sono state pratiche di mare e reset con il bottone rosso in favore di telecamera, nulla che fosse sufficiente per invertire il senso di marcia dei rapporti. Ma non è un’esclusiva della fase post Guerra fredda.
Secondo Foglesong, un indizio che l’iniziativa americana prima e dopo il periodo sovietico fosse tesa a una profonda riforma della concezione russa, non soltanto a un contenimento della sua influenza strategica, va cercata nelle vicende parallele dei due George Kennan, lontani cugini che hanno segnato due stagioni dei rapporti fra Stati Uniti e Russia. Il più famoso dei due è stato il teorico del contenimento verso l’espansionismo connaturato al regime sovietico, ma come spiegava già nel “Long Telegram” del 1946, la promozione e il rafforzamento delle istituzioni dell’occidente liberale e capitalista erano necessarie per contrastare la minaccia. Il confronto fra i due sistemi si sarebbe concluso necessariamente con l’assimilazione di uno ai principi dell’altro. Il meno noto dei Kennan era ani un esploratore che a cavallo fra Diciannovesimo e Ventesimo secolo s’è avventurato nelle regioni più remote della Siberia, ha girato in lungo e in largo il Caucaso, si è spinto dalla Kamchatka a San Pietroburgo. Anche lui era animato da uno spirito simile a quello del cugino, e attraverso la Society of Friends of Russian Freedom ha fatto di tutto per promuovere modelli sociali e politici simili a quelli che aveva conosciuto in patria. Ha anche fondato il primo giornale di opposizione al regime zarista in lingua inglese, “Free Russia”.
L'ondata di russoforia con Gorby,
"una rockstar
più popolare
negli Stati Uniti
che in Russia",
ricorda Bill Keller
È questa benintenzionata volontà americana di emancipare la Russia, salvandola da se stessa, che ha instillato nella coscienza collettiva una “presunzione di colpevolezza” dei russi. Questa è l’espressione che usa Nicolai Petro, professore di scienze politiche all’università del Rhode Island che ha lavorato al dipartimento di stato sotto Bush Senior. Nessun altra nazione viene contemporaneamente accusata di tante nefandezze, nota Petro, dall’instabilità del medio oriente alla vittoria di Trump, e questa libertà nel distribuire colpe al Cremlino è il frutto di un processo di “riduzione all’irrazionalità dell’avversario”. “Quella russa – spiega Petro – è raccontata come una cultura aliena. Molti, da Obama a Merkel, hanno detto che Putin è un leader imprevedibile, che ragiona con categorie di un altro secolo. La classe dirigente non pensa che le teorie che dominano la geopolitica valgano per la Russia. O almeno questo è ciò che comunica. Da questo deriva il fatto che l’America non ha bisogno di giustificare le sue politiche nei confronti di Mosca. Ma se questa la premessa della relazione fra le due potenze è che una è razionale e trasparente, l’altra oscura e incomprensibile, è facile vedere che tipo di rapporto può svilupparsi”. L’unico tipo di relazione, secondo Petro, è determinato dalla “presunzione di superiorità di un sistema liberale universalista che con intenzioni sincere s’adopera per addomesticare l’interlocutore”. Se la russofobia americana esiste, è figlia della russoforia, la meravigliosa opportunità di riportare Mosca dal lato giusto della storia che ciclicamente si riapre. E ciclicamente si richiude.
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