Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump (foto LaPresse)

Credono in Trump, si fidano di Putin. E queste sarebbero le élite

Giuliano Ferrara

Il fake strike dell'impostore, i sapidi commenti e quelli che si erano messi in fila per il selfie con The Donald e ora sono tutti già al Cremlino. Certi eccessi Talleyrand li considerava insignificanti

E queste sarebbero le élite. Credono in Trump, una religione particolarmente oppiacea, anche se cambia idea sulla Siria e fa un bombardamento fake, opzione limitata da piccolo sceriffo, perché diciannove tuìt dopo aver incoronato Assad scopre che il sarin ai bambini, specie a favore di telecamera, è incompatibile con la performance di un buon reality show. Cagoni. Alla prima prova seria, l’impostore, il con man, ha messo il Pentagono, il Dipartimento di stato e il Consiglio per la sicurezza nazionale al servizio del suo istinto, una furbata missilistica per fare un figurone. Come il suo predecessore Bill Clinton, che sparò un missile su una fabbrica di aspirina in Sudan, nel 1998, così, per fare scena, e preparava l’America all’eredità dell’11 settembre. “Mentre Clinton scagliava un missile su una fabbrica sudanese di aspirine, Osama faceva saltare due delle nostre ambasciate in Africa, apriva una falla nel fianco di una nave militare americana al largo dello Yemen, e così via fino agli eventi di martedì 11 settembre”: mi tocca citare Gore Vidal, che di politica capiva zero ma certe cose le sapeva vedere, magari per sbaglio.

 

Ora pare che l’arancione voglia fare un rimpasto, si dice così, e liquidare sia quello di Casa Pound sia il moderato Reince Priebus, bisogna vedere che ne pensano suo genero, il bel Jared, e la deliziosa Ivanka. Un rimpasto prima dello scadere dei cento giorni, dopo tutte quelle caccole e sconfitte da dilettante, con la sola eccezione della conferma di Neil Gorsuch alla Corte, ma a prezzo di una svolta regolamentare contro le maggioranze qualificate che non promette alcunché di buono. Cose di pazzi. E’ ovvio che l’unica speranza è l’anestesia: McMaster e Mattis, e forse Tillerson, devono riuscire a addormentarlo, magari a Mar-a-Lago, vicino a piscine e campi da golf dove questo supereroe dell’America First e delle guerre commerciali non ha concluso niente con Xi Jinping, gliela dà lui la guerra commerciale. Devono riuscirci con l’aiuto del Congresso e della maggioranza repubblicana, mica sono usciti tutti fuori di testa e tutti insieme. Ma ho il sospetto che il soggetto sia troppo vivace, troppo innamorato di sé e della tv, l’unica cosa che guarda oltre alla pussy, per farsi tranquillare e lasciare che gli adulti, the axis of adults, si mettano a lavorare con un disegno razionale accettabile per il futuro di America e occidente. Certi bei sonni si addicono più all’Europa, e alle sue élite (rieccoci), dove il putinismo più cialtrone striscia e sbava senza vergogna, perfino dalle parti di coloro, come la Le Pen e il Le Casaleggio e il Le Salvini, che si erano messi in fila per il selfie con The Donald e ora sono tutti già al Cremlino. 

 

E queste sarebbero le élite. Non solo credono in Trump ma si fidano di Putin. Il nostro Realpolitiker in chief è Sergio Romano, una persona intelligente che ha superato il test dell’appartenenza alla diplomazia italiana, notoria incubatrice di fessi e vanitosi (fatte le dovute eccezioni, non voglio litigare mai con nessuno, lo sapete), in modo abbastanza brillante. L’altro giorno ha scritto nel Corriere un commento sapido al fake strike dell’impostore. Si è messo, ma guarda, dalla parte di Vladimir, e ha redatto con stile una specie di nota politica o di velina sull’atteggiamento del capo russo in merito al fenomeno di Washington. Secondo Romano fattosi portavoce segreto, Putin preferisce un repubblicano ai democratici, che sono sempre pronti a fare al mondo petulanti lezioncine di democrazia (non sapevo che George W. Bush fosse un democratico), ma non si aspetta niente di particolarmente interessante da Trump. Putin, dice Romano, sa bene che in America c’è un giro di politici, consiglieri e militari che non perde la sua influenza ed è capace di insistere sull’idea di contenere le ambizioni russe, sono gli stessi che hanno giocato sporco con la Nato ai confini russi, dopo che il suo paese aveva perso la guerra fredda. Quindi lui sorride con degnazione, come sorrideva quando Berlusconi voleva portarlo nell’Unione europea e intanto gli faceva siglare protocolli d’intesa nella stessa Nato (un genio, il Cav., a Pratica di Mare). Se ho capito bene, perché certo Romano bisogna leggerlo e ascoltarlo, non è un bru bru, non è un Le Romano, l’occidente e gli atlantici, se ancora ci siano, devono piantarla di stare alle costole dei russi, con la solida guida di Putin un equilibrio di pace e sicurezza lo si troverà senza bisogno di petulanti lezioncine di democrazia.

 

Ecco, io capisco il fascino dell’altro supereroe, a torso nudo, a cavallo, con la presa giusta nel judo, nuovo capo dei capi della chiesa ortodossa, uno che ha ricostruito una nazione disperata e dispersa con modi bruschi ma inevitabili, uno che considera una tragedia la fine dell’Unione sovietica, lo capisco questo fascino discreto. Forse la natura del potere russo di oggi non è raccomandabile come modello di democrazia e di libertà civili, forse non è tutta fuffa questo gran parlare che si fa di reti corruttive gigantesche, di oligarchie onnipotenti e fuori controllo, di stato di polizia e di media espropriati, ma che volete, bisogna pur sempre essere realisti. Sì, certo, io lo sono. Non vado a caccia di cyberguerre, di strane storie di ex kagebisti all’estero, di magistrati al guinzaglio, bado al sodo, e Putin è uno che serve nella lotta al terrorismo, uno al quale bisogna saper parlare, ci mancherebbe. Ma fidarsi di Putin? Non è un eccesso di quelli che Talleyrand considera “insignificanti”? (A proposito, venerdì ho scritto Taillerand, uno sgorbio, ma mi sento vendicatore di quando i francesi scrivono Michel-Ange, occhio per occhio).

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.