Le operazioni dei Peshmerga curdi che stringono su Mosul (foto LaPresse)

Un partito armato iracheno

Sul fronte di Mosul con le milizie sciite che fanno temere “l'opa iraniana”

Daniele Raineri
I militanti di Hashd al Shabi muovono dal sud della città ma aspettano ordini. I problemi del dopo conquista

Sud di Mosul, dal nostro inviato. “Mi viene voglia di spararmi da solo a sentire questa domanda”, dice il contatto delle milizie sciite, quando gli chiediamo: “Quale sarà il vostro ruolo nella battaglia per liberare Mosul?”. Siamo a sud della città, in quella fascia di villaggi e villaggetti collegati soltanto da strade sterrate che ormai da otto anni è il vivaio preferito dello Stato islamico. Fucilate sporadiche, niente colpi di mortaio dall’altra parte “perché gli aerei li vedono e li bombardano”. Qui molti comandanti del gruppo estremista, incluso anche il comandante supremo, Abu Bakr al Baghdadi, hanno fatto esperienza di combattimento e di controllo del territorio quando ancora c’erano i soldati americani. Quando se ne sono andati, nel 2011, per lo Stato islamico è cominciata la fase dello spadroneggiamento assoluto, come se il governo neutrale di Baghdad non esistesse. Lo Stato islamico nella zona di Mosul era così forte che un giorno chiese all’agenzia dell’energia elettrica di abbassare le tariffe e quella ubbidì (s’intende, prima ancora che prendessero la città). Quella fase di dominio sta finendo soltanto adesso, giorno per giorno e casa dopo casa, grazie all’avanzata da sud verso nord dell’esercito iracheno e della polizia federale (dall’altra parte dell’assedio, da nord-est, intanto scendono i curdi). Non è questa sequenza di singoli villaggi isolati il posto più adatto per montare la resistenza più dura.

 

Le milizie sciite non sono ancora qui, c’è soltanto un piccolo contingente in avanscoperta a preparare l’arrivo del grosso delle loro forze – che sono considerate le più pericolose: quando si parla di loro si parla di rappresaglie contro i civili sunniti, di legami con le forze speciali iraniane, di una possibile deriva verso la creazione di un partito armato iracheno che condizionerà la vita del paese come già fanno i cugini di Hezbollah in Libano. Un convoglio delle milizie sciite che il contatto descrive come “enorme” sta per partire da Baghdad e, passando da est, arrivare fin sotto Mosul in attesa che la battaglia cominci dentro la città. Il Foglio è embedded assieme alla piccola avanguardia che va sul fronte a vedere cosa succede. E quindi:  “Quale sarà il vostro ruolo? La vostra presenza è temuta, per i motivi che sapete. Si dice che siate la prova di una imminente ‘conquista iraniana’ di Mosul, si raccontano storie terribili sulle sparizioni di civili che sono avvenute a Falluja dopo che la città è stata liberata dallo Stato islamico, e chi legge tutte le guerre del medio oriente come una faida fra sciiti e sunniti cita questa vostra presenza nella battaglia di Mosul come una prova”. “Noi arriveremo qui soltanto per aiutare. Hashd al Shabi (‘La mobilitazione popolare’, è il nome che le milizie si sono date quando sono state create nell’estate 2014, al picco dell’allarme nazionale per l’avanzata dello Stato islamico, ndr) è una forza che  si è messa sotto il comando dell’ufficio del primo ministro e a lui risponde. Faremo quello che dice. Daremo una mano nei combattimenti se così sarà richiesto, oppure ci limiteremo a cingere la zona con un cordone di sicurezza, tenendoci sul margine esterno della battaglia, per garantire la sicurezza a chi sta in prima linea. Oppure ci occuperemo di altre zone che attendono di essere liberate, come Hawija e Tal Afar (altre due roccaforti storiche dello Stato islamico, ndr)”. E dopo la battaglia, che cosa succederà? L’esito è scontato, perché il rapporto tra le forze è dieci a uno a svantaggio dello Stato islamico: ma non c’è ancora un piano definito per il dopo, voi cosa avete intenzione di fare? “Il nostro piano è diventare una forza regolare sotto l’autorità del primo ministro, e così continuare a esistere anche quando lo Stato islamico cesserà di vivere. Del resto sarebbe ingeneroso dirci ciao, grazie, ora però scioglietevi, no?”.

 

“E se siamo qui, dove si rischia di morire, è perché abbiamo risposto all’appello a combattere per il bene dell’Iraq”, prosegue il contatto sciita. “E credimi: se fosse successo il contrario, se ci fosse da combattere per salvare gli sciiti del sud, stai pur certo che i sunniti di Mosul non muoverebbero un dito per venirci ad aiutare…”. Sul fronte i veicoli dei miliziani incontrano una colonna di profughi sunniti di Mosul che attraversa la terra di nessuno e li carica sui cassoni, uomini, donne e bambini. Ma si sa: come la presenza di osservatori modifica l’esperimento scientifico, così la presenza di giornalisti può condizionare il comportamento dei miliziani…

 

Le milizie sciite hanno aperto un – come definirlo? – ufficio di rappresentanza con pochi uomini armati a Qayyarah, a sud di Mosul, dove le loro bandiere sventolano sotto un cielo tutto oscurato dai fumi del greggio, perché gli estremisti hanno dato fuoco ai pozzi a meno di due chilometri di distanza. Poiché non riescono a garantirsi da sole la sicurezza e poiché sono il bersaglio numero uno di un potenziale attacco dello Stato islamico, che è stato qui indisturbato per due anni e mezzo, dentro il loro compound ci sono anche alcuni sunniti del clan al Jubouri, con i giubbotti di cuoio, le biciclette e vecchi mitra a tracolla. Sul clan al Jubouri si potrebbe scrivere un romanzo: da quel gruppo vengono molti leader dello Stato islamico, anche famosi, ma il grosso si è schierato a favore del governo, e quindi degli odiatissimi sciiti. Lo Stato islamico li considera dei rinnegati, e loro considerano gli estremisti come una minaccia esistenziale: se non riusciranno a estinguerli, saranno loro a estinguere tutto il clan. Il risultato è una guerra civile all’interno della famiglia allargata che va avanti da anni, con colpi a tradimento – come attentatori suicidi mescolati alla folla ai funerali, per approfittare dei lutti e aprire altri vuoti nel clan. E così si finisce con la scena degli uomini del clan al Jubouri che dividono pranzo e cena, carne uova e cipolle, seduti in cerchio sul pavimento assieme con gli ufficiali delle milizie sciite. Fino a due settimane fa questo ufficio apparteneva allo Stato islamico, sui divani ci sono ancora sparse copie di al Naba, il settimanale del gruppo, ed è appunto l’edizione di inizio ottobre. C’è anche uno stampo dello Stato islamico, la scritta dice: “Regione del fiume Tigri, ufficio centrale”, e gli uomini se lo passano e per scherzo stampano a inchiostro su tutto quello che capita loro sotto mano. Sul muro c’è già il primo segno del cambiamento, è un poster in tinta verde dell’imam Ali, nume sciita, la cui vista farebbe schiumare di rabbia i precedenti proprietari del posto.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)