Paul Lendvai

I nazionalismi dell'Europa dell'est che una volta erano rivolti l'uno contro l'altro ora sono tutti contro l'occidente

Andrea Affaticati
Il grande esperto Paul Lendvai ci racconta come sono cambiati i paesi dell’est, perché i migranti li hanno ricompattati e il prezzo pagato per la democratizzazione interrotta

A due giorni dal vertice europeo di Bratislava tornano ad acuirsi le tensioni (mai sopite, è vero) tra Budapest e Bruxelles. A dare il via al nuovo battibecco è stato questa volta il ministro degli Esteri lussemburghese Jean Asselborn, che ha avanzato la proposta di estromettere l’Ungheria dall’Ue se continuerà a rifiutare l’accoglienza ai profughi e a minare la libertà di stampa. “La cosa interessante da annotare oggi è che un tempo i rigurgiti nazionalisti nei paesi dell’est Europa erano prevalentemente rivolti l’uno contro l’altro”, spiega al Foglio Paul Lendvai, giornalista e scrittore – classe 1929, nato a Budapest da famiglia ebrea, scampato alla persecuzione nazista grazie a un salvacondotto svizzero, infine riparato a Vienna, dopo la rivolta di Budapest del ’56 – è considerato uno dei massimi esperti di est e Mitteleuropa. “Ora il vento è cambiato” prosegue Lendvai. “Non ultimo, ovviamente, per via dei profughi. E così oggi assistiamo all’avvicinamento tra questi paesi, che poi in blocco fanno opposizione all’Europa occidentale e all’America”. A testimoniare questo nuovo corso sono i contatti sempre più stretti tra i leader populisti di questi paesi, anche se appartengono a orientamenti politici diversi (di destra, il premier ungherese Viktor Orbán, di sinistra quello slovacco Robert Fico), così come il rafforzarsi del Gruppo Visegrad. A questo quartetto appartengono, oltre a Ungheria e Slovacchia, anche Polonia e Repubblica ceca. Nel 2004, con l’ingresso di tutti e quattro nell’Ue, il gruppo sembrava non trovare obiettivi comuni, poi però sono arrivati i profughi e il quartetto ha ritrovato se stesso.

 

“Hegel sosteneva che nella storia i periodi di felicità sono come fogli bianchi”. A Lendvai piace citare la frase di Hegel perché fotografa quanto sta accadendo nell’Europa centro-orientale. Solo una decina di anni fa, paesi come Ungheria, Polonia, Slovacchia sembravano avviati verso un solido processo di democratizzazione. Lendvai stesso, nel suo libro “Leben eines Grenzgängers” (“Vita di un transfrontaliero”) uscito nel 2012, si mostrava ottimista, soprattutto rispetto alla Polonia di cui lodava in primo luogo alcuni politici, tra questi il premier Donald Tusk – un “conservatore moderato” – e il ministro degli Esteri Radoslaw Sikorski (del quale resta memorabile l’affermazione di temere più l’inattività di Berlino che il suo potere). Oggi il quadro è cambiato. Le cause sono diverse. In Polonia vanno cercate anche tra una classe politica, capace, ma arrogante (basta ricordare il giallo delle registrazioni fatte di nascosto in un ristorante di Varsavia: riprendono Sikorski che usa paragoni rozzi riguardo alla sudditanza polacca verso gli Stati Uniti e ancora, la voce dell’allora governatore della Banca centrale Marek Belka che chiede la testa del ministro delle Finanze). Un ruolo decisivo lo giocano poi la corruzione e la crisi economica.

 

Infine, sottolinea Lendvai, non va dimenticato che la democratizzazione è un processo lungo, non immune da ripetute battute d’arresto. “Non dimentichiamoci che in Germania e in Austria ci sono voluti quasi cinquant’anni affinché ci si emancipasse totalmente dal passato nazista. Forse non tutti sanno che l’editor di Hannah Arendt era stato un nazista della peggior specie. Oggi in questi paesi nemmeno i partiti di destra vogliono essere bollati come nazisti o antisemiti”. Voler credere, come ha fatto l’Europa occidentale, che nazioni mai veramente libere – se non nell’intervallo tra la Prima e la Seconda guerra mondiale – potessero, dopo il crollo dell’Urss, diventare da un giorno all’altro modelli di democrazia è stato un errore madornale che ha creato aspettative deluse e frustrazioni.

 

Ma tra tutte le delusioni reciproche la più grande è incarnata dall’Ungheria. L’involuzione che non è però avvenuta da un giorno all’altro e le cui cause non vanno cercate solo nel problema profughi. Le avvisaglie c’erano già tutte nel 2004. Allora era nato da poco il partito di estrema destra Jobbik e Viktor Orbán, inizialmente promotore di un corso liberista, si avviava a cambiare (dopo aver guidato il paese dal 1998 al 2002) casacca, posizionando Fidesz su una linea nazionalista. “Quest’anno sono 60 anni dalla rivolta di ottobre del ’56. Una rivolta per la quale il paese aveva pagato un caro prezzo”, dice Lendvai. C’erano state centinaia di condanne a morte, migliaia di arresti e oltre 200 mila persone che avevano lasciato l’Ungheria. Janos Kadar era stato scelto dal Cremlino per riportare l’ordine: era riuscito a mantenere da una parte una linea pro sovietica, soprattutto in politica estera, dall’altra concedere piccole libertà agli ungheresi. Prendeva così forma quello che Kruscev chiamava “comunismo goulash”. “Già, per gli altri eravamo ‘l’allegra baracca’” ricorda Lendvai. “Ma proprio per via di questo regime un po’ più all’acqua di rose, gli ungheresi, diversamente dai loro vicini, non hanno vissuto la caduta del Muro come la liberazione dal giogo. In compenso hanno patito il tributo chiesto dall’occidentalizzazione, dal capitalismo: licenziamenti in massa, impennata dei prezzi. Da qui la convinzione di parte degli ungheresi che sotto Kadar si stesse molto meglio”. Da qui dunque il rinato desiderio dell’uomo forte al comando.