Donald Trump in campagna elettorale (foto LaPresse)

Perché il “maoismo” di Trump attira e spaventa la Cina comunista

Eugenio Cau

“Non possiamo continuare a permettere che la Cina stupri il nostro paese”, ha detto The Donald a inizio maggio. E' stata l'ultima uscita anti-cinese del candidato alla leadership repubblicana Eppure la maggioranza dei lettori del sito del Global Times vorrebbe lui come presidente americano.

Roma. In un sondaggio di fine marzo, i lettori del sito del Global Times, pubblicazione dipendente dal Partito comunista cinese, hanno votato con una maggioranza ben più ampia degli americani in favore del candidato repubblicano Donald Trump. Secondo il sondaggio, il 54 per cento dei 3.300 cittadini cinesi che hanno partecipato sosterrebbe Trump come presidente statunitense, contro il 40 per cento circa degli americani che intende fare lo stesso, sondaggi alla mano, alle elezioni di novembre. Quando il sondaggio è stato fatto, “Chuanpu” – la traslitterazione cinese di Trump – aveva già trascorso mesi ad attaccare la Cina e a promettere il pugno di ferro contro Pechino. Trump ha accusato la Cina di manipolare la valuta per ottenere vantaggi commerciali, messo alla gogna i suoi cittadini per rubare i posti di lavoro americani, ha promesso un dazio del 45 per cento su tutti i beni cinesi per distruggere l’economia del paese. Nelle sue famose tirate via Twitter, la Cina è un bersaglio molto più frequente del Messico, e perfino dello Stato islamico.

 

 

All’inizio di questo mese, Trump ha fatto l’accusa più grave di tutte: “Non possiamo continuare a permettere che la Cina stupri il nostro paese”. Inizialmente i media di stato cinesi, come quelli occidentali, hanno considerato la candidatura di Donald Trump come un incidente di percorso, e le sue tirate contro la Cina come parte del folklore elettorale. Ma mentre Trump passava di vittoria in vittoria, e di invettiva in invettiva, i giornali ufficiali, portavoce del Partito comunista, hanno iniziato a reagire. Trump è stato definito “un ricco narcisista” e “un clown”, “un razzista la cui ascesa preoccupa tutto il mondo”. E’ stato paragonato velatamente a Hitler e a Mussolini, e usato come prova del fatto che ormai la democrazia è un sistema marcio e superato. Ma nonostante gli insulti, le accuse, e le risposte sempre più piccate, i cinesi vivono un rapporto curioso di amore e odio nei confronti del candidato repubblicano, con i privati cittadini più favorevoli, le élite incerte su cosa aspettarsi e tutti d’accordo su una cosa: il palazzinaro di New York parla un linguaggio che ci è famigliare.

 

Pochi giorni fa sul New Yorker, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’inizio  della Rivoluzione culturale cinese (è stato ieri), Jiayang Fan ha scritto un lungo articolo in cui descriveva “Il maoismo di Donald Trump”. Secondo Jiayang, la retorica e i toni di Trump, il modo sprezzante in cui il candidato divide “noi” e “loro”, “il popolo” e “il nemico”, il suo amore per gli eccessi politici e la xenofobia, sono per i cinesi un memento continuo della retorica di Mao Zedong. Inoltre il linguaggio del nazionalismo schietto e brutale di Trump ha molta presa in Cina, dove, come ha scritto Michael Pillsbury nel suo “The Hundred-Year Marathon”, l’evoluzionismo politico è uno dei princìpi fondamentali nel modo in cui sono intesi i rapporti tra stati. Secondo Aaron Mak, che ne ha scritto su Politico, è la figura imprenditoriale di Trump, il cui brand è conosciuto in Cina, ad attrarre (“La Cina odierna ha un’ossessione nei confronti dei businessman di successo”, ha detto un analista a Mak).

 

Questo dà a Trump un’aura di pragmatico, mentre Hillary Clinton è considerata un’esportatrice della nefasta ideologia liberale dell’occidente. Ma soprattutto il momento in cui le sorti del candidato in Cina hanno iniziato a ribaltarsi è stato, continua Mak, quando prima sul New York Times e poi in una serie di discorsi ha messo a fuoco la sua ideologia in politica estera, basata sull’“America First” e sul lasciare al loro destino i paesi “freerider” come il Giappone. Molti analisti cinesi hanno teorizzato che questo approccio non interventista potrebbe favorire Pechino nel suo tentativo di rafforzare la sua influenza in tutto il continente. L’unica reazione ufficiale del governo di Pechino alla campagna bombastica di Trump, per ora, è stata quella del ministro delle Finanze Lou Jiwei, che in un’intervista al Wall Street Journal disse che Trump ha una personalità “imprevedibile”. Di solito l’imprevedibilità non è una caratteristica apprezzata dalla burocrazia comunista. Ma dopo l’incredulità iniziale, adesso i leader cinesi si chiedono se non valga la pena correre il rischio.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.