Donald Trump (foto LaPresse)

Il partito di Donald

Chi si allinea e chi si smarca nella destra spaccata da Trump

Fra drammi esistenziali e “never” rimangiati, il candidato discute con Ryan le condizioni per l’unificazione

New York. Donald Trump ha spaccato il Partito repubblicano come un vaso di Ai Weiwei, ma dopo l’impatto devastante ora si tratta di raccogliere i cocci, ricomporli, vedere quali pezzi si possono rimettere insieme e quali sono irrimediabilmente perduti. Il fronte “Never Trump”, risoluto e compatto durante le primarie, ha messo in discussione il “never” ed è entrato in una confusa fase di valutazione del male minore, dividendosi in maniera obliqua oppure prendendo tempo. La giornata di oggi è d’importanza decisiva per capire chi, e a quali condizioni, starà in quello che, come ha maliziosamente ricordato il candidato, si chiama “Partito repubblicano”, non “Partito conservatore”. Trump incontra i leader della Camera al Congresso, innanzitutto lo speaker della Camera, Paul Ryan, che al momento della vittoria di Trump ha detto di non essere “ancora pronto” per sostenerlo. Negli ultimi due giorni ha cambiato tono.

 

Ryan ha detto che “non bisogna fingere che il partito sia unito quando non lo è”, ma ha giurato di volere lavorare per l’unificazione. Trump, che era partito lanciando, per tramite della fiammeggiante Sarah Palin, nemmeno troppo velate richieste di dimissioni, ha colto l’apertura e moderato i toni, assegnando al flemmatico alleato Ben Carson il compito di preparare l’incontro di oggi.

 

Curiosità: quando il Wall Street Journal ha domandato a Ryan perché in prima battuta avesse mandato un messaggio di chisura a Trump, lui ha risposto nel modo più trumpiano possibile: “Just my gut”. Una mossa dettata dall’istinto, dalle viscere: il candidato attribuisce a quelli i suoi successi negli affari e in politica. La decisione di Ryan sarà cruciale, non soltanto per il suo ruolo istituzionale ma anche perché è il centro di gravità di un mondo conservatore ortodosso in politica economica. Come ha ricordato Fred Barnes sul Wall Street Journal: “L’ala repubblicana al Congresso comprende più dei membri del Congresso. E’ un’area che orbita attorno a Ryan, l’architetto dell’agenda che la tiene insieme e che sta spingendo con vigore alla Camera. Le élite del partito sono dalla sua parte”. Lo speaker diventa, agli occhi del partito, il garante del fatto che esiste uno spazio di convivenza ideologica fra l’anima repubblicana dell’era Reagan-Bush e il trumpismo sotto le insegne del Gop. Se c’è uno che può trovare l’accordo è lui, nonostante le aperture di Trump all’aumento delle tasse ai ricchi non siano un buon inizio.

 

Chi non ha bisogno di alcuna trattativa per stabilire che il partito di Lincoln è incompatibile con Trump si è già smarcato, dalla famiglia Bush a Mitt Romney. I neoconservatori sono a loro volta divisi, ma non sul sostegno a Trump, piuttosto sull’appoggio a Hillary. Mentre Bill Kristol si è trasformato in eroico e donchisciottesco promotore della ricerca di un terzo candidato, altri, come Robert Kagan, sosterranno una candidata che oppone internazionalismo e postura aggressiva al neoisolazionismo di Trump. Al Senato, che il partito rischia seriamente di perdere a novembre, si ragiona più sui calcoli che sugli ideali. Il leader Mitch McConnell ha accettato “il nostro candidato” e con vari gradi di ritrosia diversi senatori che affrontano la rielezione si stanno allineando a Trump. Un dramma specifico riguarda i falchi Lindsey Graham e John McCain, compagni di mille battaglie che si sono divisi lungo la “red line” del trumpismo: Graham si rifiuta di sostenerlo, mentre McCain ha chinato il capo. Anche Rand Paul, punto di riferimento della destra libertaria – lontanissima dalle tendenze al big government di Trump, ma affascinata dall’isolazionismo – ha parlato del “dovere patrio” di opporsi a Hillary. Rubio e Cruz, avversari scornati, attendono in strategico silenzio. Rimane aperto il fronte della “destra religiosa”, che ha mostrato fin qui sentimenti ambivalenti per Trump, e che ora è attraversata dal furibondo litigio fra il candidato e Russell Moore, potente portavoce dei battisti del sud.