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Fidarsi sì, ma di chi?

Paola Peduzzi
Motivazioni, dubbi, sospetti dei fighters sunniti appena promossi nostri “boots on the ground”. “Anche il diavolo in persona è alleato per combattere al Baghdadi”. John Kerry, ieri a Belgrado, ha spiegato che “senza la capacità di trovare truppe di terra pronte ad affrontare il Daesh, non sarà possibile batterlo completamente”.

Milano. Che le operazioni militari aeree contro lo Stato islamico siano necessarie ma non sufficienti ormai lo dicono tutti. Il segretario di stato americano, John Kerry, ieri a Belgrado, ha spiegato che “senza la capacità di trovare truppe di terra pronte ad affrontare il Daesh, non sarà possibile batterlo completamente”, affrettandosi subito ad aggiungere che le forze terrestri non saranno occidentali, ma dovranno essere locali. Il portavoce del governo conservatore britannico guidato da David Cameron, spiegando ieri alla stampa l’inizio degli strike in Siria – un’ora dopo il voto in tarda serata alla Camera dei Comuni a favore dell’intervento i Tornado inglesi si sono alzati in volo –, ha detto che Londra sta considerando l’invio di truppe “non combat” (la mozione appena votata in Parlamento esclude la possibilità che siano “combat”) per garantire la formazione delle forze locali.

 

Le cancellerie occidentali sono unite nel dire che non ci saranno i loro “boots on the ground” a fare la guerra allo Stato islamico, ma stanno cercando il modo di dare alle forze locali la possibilità di condurre un’offensiva di terra efficace. Anche in questo caso si intravede lo zampino della “dottrina Petraeus”, rivista e aggiornata: il generale americano David Petraeus, ideatore del “surge” e dell’operazione “cuori e menti” che ha portato al risveglio delle popolazioni sunnite contro al Qaida in Iraq nel 2007, negli ultimi mesi è rimasto cauto sull’ipotesi di inviare i marines, ma ha promosso il cosiddetto “peeling off”, cioè prendere le forze locali sunnite, estromettere gli elementi più radicali e difficilmente controllabili, dare agli altri armi e addestramento utili per prevalere nello scontro a terra con lo Stato islamico.

 

I dubbi, tantissimi, rimangono. E’ difficile fidarsi di gruppi che, negli ultimi quattro anni, sono stati considerati inadatti a ricevere quelle armi che oggi invece gli americani – con il sostegno degli alleati – stanno fornendo in quantità. C’è lo spettro storico dei mujaheddin in Afghanistan, prima armati e poi, molti anni dopo, combattuti; c’è un intreccio di interessi dei partner locali, i sauditi, i qatarioti, i turchi in particolare, che finora ha impedito che si formasse un esercito omogeneo e riconosciuto per combattere l’avanzata dello Stato islamico; c’è soprattutto una sfiducia reciproca. Da quando le truppe americane si sono ritirate dall’Iraq alla fine del 2011, il governo a dominanza sciita ha interrotto i pagamenti che erano stati garantiti dagli alleati dopo il “risveglio”, e si è messo ad arrestare molti dei leader che erano stati protagonisti del “surge” statunitense. Sentendosi traditi, molti sunniti si sono rivoltati contro Baghdad e contro Washington, e questo spiega l’iniziale tolleranza, per usare un eufemismo, delle popolazioni sunnite verso il Califfato. Ma oggi di alternative non ce ne sono tante: bisogna rischiare, e provare a fidarsi.

 

Il Wall Street Journal ieri ha raccontato che il primo test della nuova alleanza con le forze locali sunnite sarà a Ramadi, capitale di quell’Anbar del “risveglio” del 2007. Il Pentagono ha escluso che in questa operazione siano coinvolte le milizie sciite, che pure sono in forza nella zona e in tutto l’Iraq guidate dal generale iraniano Qassem Suleimani, che non si fa fotografare più da un po’ di tempo e che secondo rumor non verificabili sarebbe gravemente ferito.

 

[**Video_box_2**]Ad aprile scorso, durante la battaglia per liberare dallo Stato islamico Tikrit (la città natale di Saddam Hussein), le forze sunnite furono messe insieme a combattere, pur senza accordi formali se non l’obiettivo comune, alle milizie sciite, con risultati disastrosi: fare arretrare il gruppo di al Baghdadi è sì una priorità, ma quando ci si riesce e ci si deve accordare su chi resta a governare i territori liberati, l’inconciliabilità storica – violenta, irrimediabile – tra sunniti e sciiti impedisce ogni genere di pacificazione. Così ora a Ramadi il fronte sostenuto dagli Stati Uniti è composto dalle forze sunnite, e si tratta “del più grande contingente di combattenti sunniti” mai visto in questo conflitto, scrive il Wall Street Journal, che spiega anche: “Gli incarichi dei combattenti sunniti, che non fanno parte dell’esercito iracheno, saranno ridotti: tenere i territori già liberati dagli strike della coalizione a guida statunitense e fare azioni di polizia. Ma il loro contributo sarà altamente simbolico”.  Gli americani si aspettano che gli eventuali successi possano portare altri gruppi a ribellarsi allo Stato islamico e sperano anche – questo è invero wishful thinking – che il governo di Baghdad, a guida saldamente sciita (lo chiamano il “Suleimani’s puppet”), tenga conto della fedeltà di queste truppe e impari a farvi affidamento. In realtà, come ha raccontato Liz Sly sul Washington Post in una corrispondenza dall’Iraq, le milizie sciite fanno propaganda anti americana, dicono che lo Stato islamico sarebbe già stato distrutto se “gli americani non fossero in affari” con il gruppo, e anche il premier di Baghdad, Haidar al Abadi, ha risposto piccato all’annuncio del segretario alla Difesa americano, Ash Carter, dell’invio di nuove forze per fare raid, liberare ostaggi e catturare leader dello Stato islamico: “Non c’è alcun bisogno di forze ‘combat’ sul nostro territorio”, e il loro eventuale arrivo “deve essere prima approvato dal governo di Baghdad”. I fighter sunniti si lamentano già: l’addestramento è stato perfetto, dicono, ma le armi sono vecchie e pesanti, “non come quelle che vengono fornite alle milizie sciite”. Il governo iracheno risponde che non ci sono distinzioni settarie, e che fornisce quel che ha a disposizione (poco), ma il risultato è che, in un momento in cui si deve fare uno sforzo collettivo, rischiosissimo, di maggiore fiducia, sono tutti molto sospettosi.

 

L’origine di questi sospetti è strategica: come hanno spiegato quattro analisti dell’Hudson Institute in un paper intitolato “How to destroy the Islamic State (and how  not)”, “la mancanza di volontà da parte degli Stati Uniti di inviare truppe di terra ha fatto sì che le parti già armate sul terreno prendessero l’iniziativa. Si tratta dei peshmerga curdi, delle forze del governo iracheno, e delle milizie sciite sostenute dall’Iran”, ma “per creare un cuneo permanente tra la popolazione e lo Stato islamico, è necessario costruire un nuovo ordine guidato dai sunniti e rispettato dai locali”. Gli esperti dell’Hudson Institute sostengono che per “creare il cuneo” sia necessaria un’assistenza sul terreno ben più imponente di quella attuale. Con il “surge”, cioè con più di 200 mila soldati in Iraq, si formò la forza dei Figli dell’Iraq, 90 mila combattenti che portarono alla cacciata di al Qaida. “L’esperienza insegna – scrivono – che ci vogliono 20 consulenti ogni 500 combattenti, e una compagnia di 100 persone. Per assistere una forza di 30 mila combattenti, ci vogliono dai 7 ai 10 mila militari americani”.

 

La motivazione dei fighter sunniti per ora è molto alta. Tutti i resoconti dei reporter sul campo raccontano la determinazione e la consapevolezza di questi uomini nella necessità di combattere e vincere lo Stato islamico. Due giorni fa Ben Hubbard sul New York Times ha raccolto le testimonianze di molte famiglie fuggite dallo Stato islamico che ne raccontano la violenza sì, ma anche l’incapacità di creare quello “stato” funzionante e vivibile di cui tanto parlano i video di propaganda. Durante un’esercitazione nella base irachena di Habbaniyah, ha scritto il Wall Street Journal, Taher al Jassem, leader sunnita a capo di un gruppo di combattenti, ha raccontato che alcuni membri della sua tribù continuavano a chiedergli come facesse a sedersi con gli stessi soldati americani che aveva cercato di uccidere fino a qualche anno prima. Lui ha risposto: “Se il diavolo in persona fosse seduto al posto degli americani per combattere lo Stato islamico, gli stringerei la mano”.

 

La determinazione c’è ma nel lungo periodo, per mantenerla, gli americani con i loro alleati dovranno fornire qualcosa in più che le armi e l’addestramento. Come hanno scritto gli esperti dell’Hudson Institute, “i nostri alleati sunniti non continueranno a combattere con noi con convinzione se non offriamo loro una visione futura dell’Iraq e della Siria che sia diversa dallo status quo. Anche se partiamo con soluzioni militari specifiche, dobbiamo affrontare domande fondamentali. Che nuovo ordine vogliamo costruire? In questo progetto, quale paese sarà il nostro alleato più affidabile?”. La risposta obamiana da un anno e più è sempre la stessa: “We don’t have a strategy yet”.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi